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«Un solo uomo può fermare il motore del mondo»

di Maria C. Fogliaro

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«Senza le informazioni che diano inizio a un dibattito pubblico, siamo perduti. Il popolo deve essere in grado di contestare il governo e di inchiodarlo alle sue responsabilità. Quello è il principio sul quale gli Stati Uniti d’America sono stati fondati. Quindi, se vogliamo proteggere la sicurezza nazionale dobbiamo proteggere questo principio». Queste parole pronunciate da Edward ‘Ed’ Snowden costituiscono l’anima di Snowden (Germania, USA, 2016, 134’), l’ultimo film diretto da Oliver Stone, che lo ha scritto insieme a Kieran Fitzgerald ispirandosi ai libri Snowden di Luke Harding e Time of the Octopus di Anatoly Kucherena. A due anni dall’uscita di Citizenfour (2014), il documentario di Laura Poitras Premio Oscar nel 2015, il regista newyorkese ricostruisce la vicenda dai pesanti riflessi politico-giuridici del giovane analista informatico che nel 2013 ha dato origine al Datagate, rivelando al mondo − tramite «The Guardian» − i programmi di sorveglianza elettronica di massa diretti dalla National Security Agency (NSA) e dalla CIA con il benestare del governo americano.

Nel 2013 all’hotel Mira di Hong Kong Snowden (un bravissimo Joseph Gordon-Levitt), fuggito dagli USA con decine di migliaia di documenti top secret, incontra i giornalisti del «Guardian», Glenn Greenwald (Zachary Quinto) e Ewen MacAskill (Tom Wilkinson), e la regista Laura Poitras (Melissa Leo). E insieme a loro ripercorre i suoi ultimi nove anni al servizio dell’intelligence, con la quale ha iniziato a collaborare appena ventunenne dopo aver rinunciato a entrare nelle forze speciali dell’esercito per problemi di salute. Primo del suo corso, Edward viene subito impiegato in quella che − nella «guerra globale al terrore» inaugurata dalla presidenza di George W. Bush e proseguita sotto quella di Obama − è considerata la «prima linea», ovvero il complesso delle comunicazioni mondiale. Ed è sul campo − fra gli USA, Ginevra, il Giappone e le Hawaii − che egli matura la decisione difficile, ma per lui ineluttabile, che lo trasforma agli occhi di una parte dell’opinione pubblica americana in un whistleblower (chi rifischia segreti e così sfida il potere per svelare illegalità), e che lo costringe ad abbandonare la sua patria e a trovare rifugio, dopo alterne vicende, in Russia.

In linea con la propria storia di regista e sceneggiatore politicamente radicale, in questo suo ultimo film Oliver Stone racconta di etica e di passione civile, portando in scena la figura di un collaboratore dei servizi segreti che non ha mai dimenticato di essere prima di tutto un cittadino, e che è stato incapace di rinunciare alle proprie idealità patriottiche e democratiche. Non è, infatti, il denaro a muoverlo, né un egoico desiderio di affermazione (Ed viveva alle Hawaii e guadagnava una montagna di soldi), ma un’impellenza morale che lo spinge a violare ogni regola per opporsi al controllo sociale attuato in nome della lotta al terrorismo in quello che Corbin O’Brian (Rhys Ifans) – il supervisore di Snowden alla CIA – chiama l’attuale «stato del mondo», nel quale «segretezza è sicurezza, e sicurezza è vittoria». Insomma, una personalità fuori dagli schemi: introverso e un po’ impacciato nei rapporti umani – come testimonia la relazione con Lindsay (Shailene Woodley) −, e al contempo dotato di una mente brillante e di un’indole audace, cresciuto col mito di Star Wars, e formato dalle letture di Joseph Campbell, di Henry David Thoreau e di Ayn Rand.

Incrociando con abilità finzione e cronaca (anche grazie al montaggio di Alex Marquez e alla fotografia di Anthony Dod Mantle, capaci di rendere l’atmosfera cospiratoria che si respira per tutto il film), Stone realizza una spy story che gli consente di portare all’attenzione del vasto pubblico uno dei casi più scottanti che abbia mai investito l’intelligence americana dai tempi dei Pentagon Papers negli anni Settanta. Attraverso vivaci scambi di battute − fra Ed e il suo collega Gabriel (Ben Schnetzer) − vengono illustrati i programmi (come PRISM) per la raccolta di «metadati» sulle conversazioni telefoniche e gli scambi di email; le funzioni del tribunale FISA; o i tentativi fallimentari di denunciare gli abusi dei servizi segreti USA fatti prima di Snowden, come quelli che videro protagonista William Binney, la cui figura è ravvisabile nel personaggio di Hank Forrester (Nicolas Cage).

Snowden, che esce mentre è in corso la campagna patrocinata da Amnesty International #PardonSnowden, porta in scena una vicenda ancora aperta e certamente divisiva, come mostrano nel finale del film le voci fuori campo di Hillary Clinton (per la quale Snowden «dovrà prendersi le responsabilità delle sue azioni») e di Bernie Sanders (per il quale, al contrario, si tratta della «più coraggiosa azione a tutela delle libertà civili»). Ma soprattutto rende testimonianza della passione civica di un regista che ha introiettato il mito americano della libera informazione e che ha sempre scelto, con coraggio, da che parte stare.

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