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Cartoline da un paese non ordinario di Marco Benni

Dal momento in cui Valore Lavoro ha deciso di organizzare una serie di incontri post elezioni, la scaletta delle cose da dire è cambiata ben più che quotidianamente. Così come quotidianamente sarebbe necessario  aggiornare la geografia delle candidature a futuro segretario, relegando di fatto la recente elezione di Epifani a un passaggio che oramai sembra sbiadito tra i ricordi. Nonostante questa analisi venga ultima nella lista di quelle già prodotte e volendo tener fede al principio che per imparare a non commettere di nuovo gli errori, soprattutto quelli gravi, bisogna anche imparare a capirne le ragioni, sarebbe necessario rileggere un po’  la storia sia recente che passata. Vale la pena quindi ripercorrere velocemente cosa ci ha portato a dovere addirittura discutere di rifondare o resettare e mi son permesso di fare un passo ulteriore e proporre la formattazione del disco fisso del Pd. Dopo Tangentopoli, dopo il ventennio berlusconiano, dopo cinque  anni allucinanti di promesse, falsità e malgoverno ci si sarebbe aspettato, alle elezioni politiche in un paese normale, che venisse premiata la principale forza di opposizione, oltre naturalmente un incremento dei movimenti di protesta e una inevitabile astensione tra delusi e stremati dalla troppo lunga crisi economica. È invece è accaduto quello che si “sarebbe dovuto osservare”: bastava ascoltare la gente che si incontrava nei luoghi di lavoro, facendo la spesa, guardando un oggetto autoreferenziale come la tv ma che ancora qualche sintomo riesce a farlo trasparire, ma soprattutto chi avesse osservato la tendenza delle discussioni sui social network.

Da queste banali osservazioni si potevano facilmente prevedere: il ritorno della vecchia politica fatta di promesse;
l’insopportabilità dell’ingerenza tedesca ed europea spesso identificate come fonte dei mali e dei sacrifici nelle scelte di governo italiane; la bocciatura, anch’essa ampiamente prevedibile, dei 12 mesi di governo tecnico, dei suoi ministri, dei suoi sostenitori e delle sue proposte e risultati; la sottovalutazione del M5S, sempre più esorcizzato che analizzato e compreso; il cullarsi nell’illusione delle primarie che, anch’esse prevedibilmente, si sono rivelate una ciambella di salvataggio della classe politica che invece avrebbe dignitosamente dovuto costruire una alternativa per una classe dirigente, più giovane, più preparata, più carica di innovazione ed entusiasmo e soprattutto meno compromessa o forse anche solo meno usurata da anni di battaglie.

Non si spiegherebbe altrimenti Grillo che passa dal 12% al 25% dopo la campagna elettorale e Berlusconi che si riprende una fetta importante del suo elettorato dopo cinque anni di disastri. Si spiega invece con Bersani che ha fatto una campagna elettorale all’insegna del buon padre di famiglia, ma con una proposta programmatica balbettante se non inesistente.

Ci sarà un perché se i voti del 24 febbraio hanno lasciato così poco vantaggio al centrosinistra  rispetto a quanto ci si sarebbe dovuto aspettare dopo un periodo così disastroso? Occorre inoltre osservare che le chance di vittoria elettorale il Pd le aveva sepolte nel cassetto nel novembre 2011, accettando  il governo tecnico: qui a mio modesto parere, sta l’inizio della fine della gestione bersaniana del Pd.

Un partito che non rivendica il diritto-dovere di porre in essere le proprie idee anche e soprattutto in un momento di crisi, può significare solo due cose: paura di governare, assenza di una visione, di un progetto o di un programma. Di conseguenza delegare a terzi le proprie responsabilità ha significato lasciare sul campo speranze, tempo, voti. Sinceramente alle minacce sulla liquidità e sul fallimento dell’Italia non ci si può proprio credere. Purtroppo ha prevalso ancora una volta quella che chiamo la vocazione minoritaria del Pd, l’incapacità di credere in quello che si fa, di valorizzare e ammodernare il proprio patrimonio di idee e di uomini.
Paghiamo e, se non si inverte decisamente la rotta, pagheremo  le non scelte sulla riforma dei costi della politica, che avrebbero dato il senso di mettere elettori ed eletti allineati a una stessa ideale riga di partenza più equa nel bel mezzo di una crisi devastante, la scelta di non forzare per la riforma del parlamento e sulla legge elettorale, di non tenere il punto a costo di far cadere il governo Monti sulle scelte in economia e sul lavoro.

Per onestà intellettuale è anche vero che oggi il Pd e Bersani pagano in un solo attimo errori che vengono da lontano nel tempo. Ad esempio la proposta di riforma del parlamento scaturita dal Primo Vday di Grillo a Bologna fu sottoposta al centrosinistra.
Ma allora c’erano Veltroni e Prodi.

Nel suo piccolo la nostra associazione ne è una prova. Dopo il fallimento in gran parte dell’esperienza dei Forum, la tanta fatica fatta per ancorare la discussione del nostro partito, e  voglio sottolineare il nostro, a tematiche concrete soprattutto legate alla crisi e alle possibili soluzioni, ai problemi delle imprese, delle cooperative, degli artigiani, dei giovani, dei lavoratori e dei lavoratori autonomi, che chiedevano aiuto ascolto e offrivano tempo e investivano disponibilità nei confronti del Pd, lo sforzo fatto per ricostruire un momento di discussione fra gli amministratori e chi nel Pd segue i vari temi, la fatica per tornare a dare un senso e un seguito alla discussione che si svolge nelle varie sedi del Pd e i circoli che ora viaggiano su binari paralleli è naufragata in un contesto di sufficienza, certamente derivante da un presunto risultato elettorale positivo.

Alla luce di queste considerazioni, dobbiamo ascoltare seriamente chi dice che non abbiamo capito la gravità della crisi o cosa stava succedendo in Italia prima e durante la campagna elettorale.
Forse chi lo dice non avrà capito. Ricordo di avere personalmente fatto vedere, rischiando quasi accuse di spamming, e inoltrato decine di foto delle piazze di Grillo, piene di preoccupazione ma anche di entusiasmo, assieme ai tanti segnali e messaggi di rassegnazione e preoccupazione se non sconforto, raccolti banalmente ascoltando iscritti, elettori del Pd, normali cittadini.
Non saprei sintetizzare meglio quello che dissi già dopo le “parlamentarie” di Gramellini nel suo Buongiorno. Notare la data: 15/01/2013

«Consigli non richiesti a Bersani
Ricominci a pettinare le bambole. Il Bersani presidenziale, in gessato e ingessato, ha perso simpatia senza guadagnare carisma. Smaltita l’emozione delle primarie, il partito strafavorito sta iniziando a rinculare nei sondaggi. Servirebbero Renzi e il pullman dell’Ulivo: qualcuno o qualcosa che parli ai cuori e alle pance. Lei, Bersani, è un politico del Novecento (lo dico a suo merito), più credibile come amministratore pubblico che come seduttore appassionato. Il suo problema è che non dà mai un titolo. Invece le campagne vivono di slogan, messaggi semplici, frasi a effetto. “L’Italia giusta”, col suo sorriso ammainato accanto, ha invaso le città come un preludio di quaresima: non ne parla nessuno, nemmeno per dirne male. Le sue interviste grondano buon senso e competenza, ma non contengono una sola idea concreta facilmente afferrabile. Lei non sta dettando l’agenda di queste elezioni. Va sui giornali con argomenti di politichese – l’accordo con Monti, la desistenza con Ingroia – o espressioni vaghe (“confermeremo l’austerità, accompagnandola con intelligenti politiche di crescita”) che rassicurano i mercati, non le famiglie con due disoccupati in casa. Spezzi il tran tran del vincitore designato, organizzi eventi che attirino l’attenzione. Ma cosa aspetta a coccolare lo spirito anticasta degli elettori, proponendo come primo atto del nuovo governo il dimezzamento del numero dei parlamentari e dei consiglieri locali?  Se non cambia rotta vincerà comunque, ma rischia di vincere male e per poco. Peccato, perché fra quelli in gara probabilmente è il migliore».

L’eccesso di sicurezza, con tutta la struttura del Pd che pregustava già organigrammi e strategie post-voto, l’egoismo e la miopia di chi ha condotto il Pd sino a qui e non solo il segretario, ha prodotto prima e dopo il voto la situazione cui si sta cercando di porre mano in questi giorni. Con il crescendo rossiniano che è culminato nelle votazioni per il presidente della Repubblica svoltesi in maniera quasi demenziale e concluse come ben ricordiamo. Per chi ritenesse eccessivo l’aggettivo consiglio la visione di questi video di Zoro:

http://www.youtube.com/watch?v=hDPqOT9vXlg

Nella nostra associazione abbiamo discusso a lungo, ai tempi delle primarie, quale candidato sostenere. Col senno di poi la scelta istintiva che avevamo maturato si è rivelata quella che ci avrebbe evitato questa impasse, pur avendo comunque l’ambizione di discutere e spesso cambiare alcune proposte che Renzi aveva avanzato nel corso della sua campagna per le primarie e criticare l’accento eccessivo sul dato generazionale.
Ma non è stato possibile nemmeno allora parlare di cose concrete perché si è trasformata quella consultazione in una battaglia fra guelfi e ghibellini, che prescindeva anche quella dall’ancoraggio a temi e proposte concrete, bensì si è semplificato il tutto in una scelta tra giovani e rottamatori e amanti dell’usato sicuro.

Oggi le proposte cha avanziamo ambiscono a un superamento delle correnti mediante l’aggregazione sulle politiche che il Pd vorrà portare avanti per i giovani, le persone anziane, la sanità, la riforma dello Stato, l’economia, la lotta alla disoccupazione (11,5% sul totale e 38,5% gli under 25 anni), la lotta alle mafie come quella alla corruzione e all’evasione. Tre malattie endemiche e devastanti del nostro Paese. Quest’ultima ad esempio è stimata in 270 miliardi di euro evasi ogni anno secondo l’Istat pari al 17% del Pil annuo. Solo recuperandone una quota magicamente svanirebbe il dibattito sull’Imu si/Imu no, o sull’Irap… perché non ce ne sarebbe bisogno!

L’ovvia impossibilità di andare al voto per il Pd in queste condizioni, dà fiato alla retorica della necessità del governo Letta che il Pdl (partito proprietario che non rischia di frantumarsi) usa e userà nei prossimi mesi, con le figure prescelte piuttosto che con le proposte di programma, per frantumare anzi il Pd, decidendo il momento più opportuno per incassare col voto quello che noi non abbiamo incassato nel novembre 2011.
Auspicabile quindi, ma veramente difficile da applicare nel quotidiano, l’ambizione di tenere il timone e indicare la rotta di una maggioranza e di un governo siffatto.

Basta quindi con le correnti, basta con le carriere per cooptazione, basta con le divisioni fra trentenni, quarantenni, giovani turchi, basta con le fondazioni e le associazioni. Compresa la nostra. Lo slogan potrebbe essere: si fa politica nel Pd e per il Pd. Basta con chi usa strumentalmente le nostre divisioni per minacciare di creare aggregati o nuovi partiti per perpetuare un giochino vecchio: sfrutto le divisioni per farmi eleggere o trovare un posticino
Occorre provare a vincere le elezioni per portare avanti le nostre idee, non emendare da ultime quelle di Monti o del centro destra nel governo Letta, eviterei ogni commento sulla sua composizione e il panorama delle commissioni parlamentari uscito da quell’accordo.
Non anteponiamo ancora una volta la scelta nominalistica al progetto e alla proposta politica. Gli iscritti e gli elettori delle ultime elezioni non sopportano e non potranno sopportare ulteriori balbettii, accordi sottobanco, tradimenti del voto.
Ci si aggrega per idee, si portano idee, ci si apre a nuove idee, nel Pd per il Pd. Se una cosa da ultimo insegnano questi mesi, è che non dobbiamo cercare di battere  ancora una volta un nemico all’interno del Pd, cerchiamo di battere quelli fuori il Pd.

Sperando che l’auspicio di Severgnini si riveli corretto, concluderei questo troppo lungo testo con una bella citazione tratta dal Corriere della Sera più di un anno fa che si attaglia al momento particolare che nel Pd stiamo vivendo: «… Noi italiani non abbiamo alcun bisogno di rifugiarci in queste tattiche difensive: siamo un grande popolo con alcune debolezze. Quasi sempre, purtroppo, spettacolari.
«Ma l’Italia non è come gli orologi, che avanzano regolarmente. È come i bambini: cresce a balzi irregolari, di solito quando uno non se lo aspetta. Nella nostra vita pubblica c’è un aspetto operistico che gli osservatori stranieri — bramosi di metafore colorate e comprensibili — non mancano mai di notare: gli italiani applaudono il tenore fino al momento in cui lo cacciano dal palco a suon di fischi, pronti ad accoglierne un altro. Lo stesso abbiamo fatto con chi ci governa: la musica non cambia.

«Credo che abbiamo capito alcune cose – tutti, anche chi si rifiuta di ammetterlo per questioni ideologiche. Non possiamo pretendere servizi sociali nordeuropei mantenendo comportamenti fiscali nordafricani.
Non possiamo permetterci buone scuole, buoni ospedali e buone strade se le risorse finiscono nell’economia malavitosa (140 miliardi), nelle banche svizzere (120 miliardi), in corruzione, rendite ingiustificate e sprechi. Non possiamo andare in pensione quando siamo ancora attivi, per essere mantenuti da giovani che manteniamo inattivi (chiudendo loro il mercato del lavoro).
Non siamo previdenti come la formica della favola; ma siamo troppo smaliziati per non intuire il destino della cicala…». (Beppe Severgnini, Come è possibile cambiare gli italiani?, Corriere della Sera, 11 febbraio 2012)

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