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L’«antifotografia», libera dalle regole, di William Klein

di Maria C. Fogliaro

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Innovatore, dissacrante, ironico, anticonformista, visionario. Sono, questi, i principali aggettivi nei quali ci si imbatte quando si parla di William Klein. Dalla pittura (la disciplina che lo ha formato), alla fotografia (con la quale si è imposto a livello internazionale), al cinema, ogni forma espressiva che ha praticato è stata da lui decostruita, sconvolta, rivoluzionata. A questa potente personalità artistica Milano dedica la retrospettiva William Klein. Il mondo a modo suo, curata da Alessandra Mauro, e visitabile al Palazzo della Ragione fino all’11 settembre 2016.

Nato a New York nel 1928, da una famiglia ebrea di origini ungheresi, Klein appena diciottenne abbandona gli studi di sociologia per seguire in Europa l’esercito americano in qualità di operatore radio. A Parigi − dove deciderà di stabilirsi definitivamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale e dove ancora oggi vive − segue i corsi di pittura di André Lhote (pittore e scultore cubista) e incontra Fernand Léger: ma ancor più che la sua pittura lo affascinano le sue idee, e la vivacità intellettuale che si respira nel suo atelier. Completa così la propria formazione artistica, assimilando le arti plastiche, influenzato dal Bauhaus, Mondrian, Max Bill e dalla grafica del tempo.

L’esposizione di Milano − città che vide nel 1952 l’esordio artistico di Klein con una mostra voluta da Giorgio Strehler al Piccolo Teatro, e dove collaborò con la galleria «Il Milione» e con l’architetto Angelo Mangiarotti, che gli commissionò alcuni murales in bianco e nero su pannelli girevoli − ripercorre le fasi più importanti dell’opera dell’artista newyorkese, a partire dai primi lavori astratti e concettuali, caratterizzati dallo stile geometrico e dai netti contrasti tra diverse aree di colore tipici della Hard edge.

Ma − come testimonia la mostra in corso − è il suo ritorno a New York nel 1954 a segnare l’inizio di quella che è unanimemente considerata la rivoluzione fotografica di Klein. Contro gli stili e le regole ufficialmente riconosciuti − il «momento decisivo», il linguaggio universale, la composizione perfetta trionfanti con l’opera di Henri Cartier-Bresson −, William Klein inizia a percorrere la sua città con una Leica in mano, alla ricerca «dello scatto più puro, il “grado zero” della fotografia». Con lo sguardo di un etnografo e con uno stile personalissimo, caratterizzato dall’uso del grandangolo (che gli serve per inquadrare il più possibile), egli dà vita a un racconto visivo originale e, per il tempo, controcorrente: scatti grezzi, sgranati, fuori quadro, mossi, ma audaci, vitali, energici, catturano il caotico flusso vitale della Grande Mela e immortalano l’«umorismo nero, assurdità e panico» dei suoi vecchi concittadini. La sua New York fu però trovata «troppo brutta, troppo squallida e troppo unilaterale» in America, dove tutti gli editori respinsero, spesso con disgusto, il suo lavoro. Fu di nuovo la Francia ad accoglierlo: qui i suoi scatti dal ritmo trascinante e le sue composizioni, influenzate dalla grafica editoriale dei tabloid, videro la luce in New York Life is Good & Good for You in New York − Trance Witness Revels (éditions du Seuil, 1956; in Italia furono pubblicate nello stesso anno da Gian Giacomo Feltrinelli), l’opera che segna un punto di rottura nella storia della fotografia e che gli varrà il «premio Nadar» nel 1957.

Questo fu l’inizio. Nel 1956 − seguendo il percorso dell’esposizione − Klein è a Roma, chiamato da Fellini, al quale avrebbe dovuto fare da assistente, ma dove invece − sotto la guida di Pasolini, Flaiano, Moravia, Feltrinelli − con la curiosità dell’osservatore partecipante, ma mai giudicante, fu presto capace di entrare, così come aveva fatto con New York, nel flusso esistenziale della «Città eterna» e di coglierne il respiro più profondo − come si può vedere negli scatti realizzati a Cinecittà, o in quelli che ritraggono le suore sorridenti in Piazza San Pietro, Il Colosseo Quadrato + Buitoni (1956), o La sacra famiglia in vespa (1956) −.

Con lo stesso spirito egli osserva, più tardi, Mosca (sovvertendo le idee sull’Unione Sovietica dominanti in Europa), Tokyo (dove è «tutto da vedere, nulla da interpretare»), e soprattutto Parigi, la città che ama, che conosce, e che tuttavia continua a sorprenderlo per la vivacità delle sue strade e delle sue intense espressioni collettive. Una sezione della mostra è interamente dedicata a Contacts, i provini a contatto dipinti, una serie di sequenze di grande impatto estetico, nelle quali Klein inventa nuovi tipi di effetti artistici, «coniugando in modo organico, non arbitrario, pittura e fotografia» − come affermò egli stesso −.

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Anche nella moda − le cui porte gli furono aperte fin dal 1954 da Alexander Liberman, direttore responsabile di «Vogue» in America − Klein portò l’esperienza della street photography: le modelle passeggiano in strada e il mondo diventa teatro − come in Simone + Nina (Piazza di Spagna, Roma 1960), certamente una delle più belle foto di moda mai realizzate −.

Artista dalla carica innovativa profonda, sempre curioso e aperto a ogni forma di esperienza, Klein ha anche esplorato il cinema, cimentandosi con differenti generi (dalla fiaba, alla farsa, al documentario), e ha realizzato opere diverse, a volte satiriche, e sempre caratterizzate da una forte critica sociale e da una riflessione profonda sulla modernità contemporanea − come testimoniano, ad esempio, Loin du Vietnam (1967), il documentario diretto insieme a Jean-Luc Godard, Alain Resnais e altri; Muhammad Alì, the Greatest (1974); o Le Messie (1999), ispirato al Messiah di Händel −.

Girando per le sale della mostra − fra centocinquanta opere originali, installazioni e video estratti dai film − si è afferrati da un’esibizione forte, lucida, a tratti cruda, che cattura il visitatore e lo immerge nel percorso esistenziale di un artista unico, fuori dai canoni; distruttore di regole e miti; impavido nello sperimentare e nel provare nuove soluzioni tecniche; amante della vita e della sua potenza dionisiaca, non sempre perfetta (secondo i canoni degli uomini comuni), ma della quale ha cercato di carpire il timbro più profondo e autentico.

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