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Più forte delle bombe

di Maria C. Fogliaro

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Che la realtà non è unica, ma che tanti universi interpretativi scorrono paralleli: è questo l’assunto che regge l’intero intreccio narrativo di Segreti di famiglia (Louder than Bombs, Norvegia, Francia, Danimarca, USA, 2015, 109’) del regista norvegese Joachim Trier.

Dopo la scomparsa prematura di Isabelle Reed (Isabelle Huppert) − famosa fotografa di guerra, morta a cinquantasette anni in un incidente stradale vicino casa − le vite del marito Gene (Gabriel Byrne), insegnante con un passato da attore, e dei suoi due figli, Jonah (Jesse Eisenberg) e Conrad (Devin Druid), vengono irrimediabilmente sconvolte.

A tre anni dalla disgrazia − che in realtà si scopre presto essere stata il gesto estremo di Isabelle, in fuga da se stessa e preda di una forte depressione −, i colleghi di un tempo decidono di preparare a New York una retrospettiva a lei dedicata. Così Jonah − professore universitario, ormai sposato e da poco diventato padre − decide di tornare a casa, dove vivono, fra incomprensioni e contrasti, Gene e Conrad, per selezionare, fra gli inediti della madre, il materiale da presentare alla mostra. Inizia così per i tre uomini un viaggio doloroso nella memoria, che farà emergere ricordi, emozioni e verità nascoste di un passato che è ancora vivo e che condiziona pesantemente il loro presente.

Scritto insieme a Eskil Vogt, il film di Trier ruota intorno al personaggio complesso e ricco di sfumature di Isabelle, una donna infelicemente divisa fra la passione per un lavoro duro, ma dalla grande importanza civile e − nella sua pericolosità − estremamente eccitante, e l’amore per la famiglia, alla quale non ha mai voluto rinunciare.

Con questa figura di moglie e madre assente e sfuggente, ma archetipicamente centrale, − incapace di affrontare il suo dolore personale e di assumersi le responsabilità delle proprie scelte di vita − sono costretti a confrontarsi dopo la disgrazia i suoi familiari, su ognuno dei quali si è abbattuto, in modo diverso, tutto il disagio esistenziale di Isabelle. Gene, che è sempre stato il baricentro forte di un matrimonio spesso in crisi e il punto di riferimento vero per tutta la famiglia, non è più riuscito dalla perdita della moglie ad aprirsi concretamente a una vita sentimentale nuova, e ha rivolto tutte le proprie attenzioni al figlio minore − Conrad − al quale ha nascosto, finché ha potuto, la causa vera della morte della madre. Jonah, all’apparenza la persona più equilibrata e razionale, vive in realtà una profonda dissociazione fra la sua vita attuale di padre e marito, e la voglia di cedere a pulsioni ancora adolescenziali che da quella realtà lo vorrebbero allontanare. Conrad, invece, che sta vivendo un’adolescenza tormentata, chiuso in se stesso e ancora profondamente legato al ricordo della madre, alla fine − a dispetto delle apparenze e dell’età − rivela di possedere una notevole maturità e una grande forza interiore.

Soprattutto, si vedono Gene, Jonah e Conrad affrontare le medesime situazioni partendo da stati interiori molto differenti, che alimentano versioni molteplici della stessa realtà − come il regista mostra nelle scene che ritraggono il rapporto complicato fra Gene e Conrad −. Per convincerci che la realtà materiale è irrilevante se staccata dalle percezioni del soggetto che la interpreta, Trier dà al suo film un andamento narrativo volutamente frammentato, nel quale i punti di vista dei protagonisti si alternano nel racconto, scandagliati attraverso una visione di superficie che mira a penetrare gli stati emotivi senza servirsi dei dialoghi, che lascia i momenti più introspettivi ai silenzi e ai lunghi primi piani di Isabelle, e alle parole tratte dal diario che Conrad tiene sul proprio computer e che farà leggere a uno stupefatto Jonah. Allo stesso scopo il regista fa ricorso a stili e definizioni d’immagine differenti − lunghi primi piani, scene di reportage e creazioni al computer − che cerca, non sempre riuscendovi, di fondere unitariamente.

Ne esce nel complesso un film bello, soprattutto per la fotografia e per l’efficace recitazione degli attori − con Huppert capace di grande intensità davanti alla macchina da presa −, che, sia pure con qualche fragilità nella trama (un po’ schematica), porta in scena il dramma personale di una donna attraverso il vissuto dei suoi familiari, e mostra le ambiguità e le contraddizioni che, in fondo, alla vita appartengono e alla quale sono anche capaci di regalare vivacità e ricchezza. L’amore − come dice il titolo originale − è «più forte delle bombe».

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