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C’è sempre Vita, anche nella banlieue

di Maria C. Fogliaro

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Un’umanità sola e forse rassegnata abita il grigio palazzo, in un non ben identificato punto della periferia parigina − anch’essa grigia −, di Il condominio dei cuori infranti (Asphalte, Francia, 2015, 100’): fuori, solo chilometri di strade cineree e palazzoni fatiscenti; dentro, donne e uomini che vivono alla giornata, apparentemente senza speranza e prospettive per il futuro. Il film di Samuel Benchetrit inizia con una riunione di condominio convocata per decidere la sostituzione dell’ascensore del palazzo, sempre guasto. I condomini sono tutti d’accordo sulla necessità di affrontare la costosa spesa; tutti, tranne Stemkowitz (Gustave Kervern), l’inquilino del primo piano. Si decide, pertanto, che Stemkowitz non verserà la propria quota, ma non potrà mai usare l’ascensore. Nel palazzo abitano anche Charly (Jules Benchetrit), un adolescente molto intraprendente, che vive con la madre, ma che trascorre la maggior parte del tempo da solo; e la signora Hamida (Tassadit Mandi), di origini algerine, che si occupava della casa e dell’amato figlio Majid (Abdelmajid “Mickey” Barja) prima che questi finisse in prigione.

Il destino arriva presto a sconvolgere e, in un certo senso, a rivitalizzare le esistenze solitarie e monotone di Stemkowitz, Charly e Hamida. A causa di un assurdo incidente domestico Stemkowitz si ritrova paralizzato e costretto sulla sedia a rotelle. È solo, bloccato in casa, e − senza potersi servire dell’ascensore − impossibilitato a fare qualunque cosa. Decide pertanto di usare l’ascensore di nascosto, quando nessuno può vederlo. Inizia così a uscire di notte, e − nel suo vagare in cerca di cibo e di un po’ di libertà − si ritrova a comprare sacchetti di patatine fritte dal distributore automatico del vicino ospedale. È qui che incontra una malinconica infermiera (Valeria Bruni Tedeschi), che ogni notte − quando è di turno − si concede il piacere di una sigaretta solitaria; ed è qui che Stemkowitz vorrà sempre tornare, a dispetto di tutto e di tutti, per rivedere quel volto e ascoltare quella voce.

A riempire le giornate sempre uguali di Charly arriva intanto Jeanne Meyer (Isabelle Huppert), la nuova vicina − una donna introversa, un po’ depressa forse, ma certamente fuori posto in quel contesto −, che presto il ragazzo scoprirà essere stata un’attrice di successo. Il giovane, dopo averla aiutata a risolvere piccoli inconvenienti domestici, vorrà spronarla e sostenerla in un’impresa per lei necessaria − se non vuole rimanere chiusa in se stessa per sempre −: tornare a recitare. È così che insieme riprendono in mano un vecchio copione, e con Charly − improvvisatosi regista − Jeanne inizia il suo percorso di risalita.

Ma l’incontro più spettacolare è quello che attende la signora Hamida. Un giorno alla sua porta bussa John McKenzie (Michael Pitt), un astronauta americano che, di rientro sulla Terra, è precipitato per errore − fra lo stupore di due ragazzi intenti ad ascoltare musica e a fumare (quasi sicuramente marijuana o hascisc) − sul tetto del palazzo in cui la signora abita. Nonostante le differenze linguistiche − l’astronauta è, ovviamente, anglofono −, la donna accoglie lo straniero (che sembra un alieno, con la sua tuta spaziale) nella propria casa, e lo tratta come se fosse stato suo figlio. Inizia così fra i due una dolcissima intesa, fatta di momenti semplici, molto intimi e commoventi − come guardare insieme una soap opera in TV o assaporare, fra i sorrisi, il cuscus preparato con tanto amore da Hamida −.

Tratto dall’opera autobiografica del regista Chroniques de l’asphalte, Il condominio dei cuori infranti è un racconto delicato, surreale, ironico (a tratti grottesco), e − allo stesso tempo − duro e disincantato della vita quotidiana in una banlieue, rappresentata − forse per la prima volta sul «grande schermo» − non come focolaio di tensioni e di violenze da parte di sbandati criminali, ma come luogo abitato da un’umanità vera, capace di poesia e − nonostante l’emarginazione cui è soggetta − di gesti altruistici. Il film − che può contare su un montaggio ben dosato, in grado di unire e di tenere in equilibrio i differenti episodi, e sulla bella colonna sonora curata da Raphaël Haroche − esprime chiaramente l’idea che nessun «individuo signore di se stesso» può esistere senza società, e che qualsiasi società senza solidarietà è sterile, destinata all’estinzione e alla morte − o per il precipitare della violenza, o per ignavia −. Inoltre, la visione poetica (e fantastica) del mondo può cambiare la realtà delle cose, e un suono meccanico acceso dal vento − come quello che si sente ripetutamente nel corso del film − può diventare qualsiasi cosa: il pianto di un bambino, un demonio, un grido, il ruggito di una tigre fuggita da un circo. E soprattutto quello che, alla fine, entra davvero nel cuore, e lì rimane, è la profonda umanità dei personaggi − più veri del vero −. Sopra tutti la figura di mamma Hamida, nei cui gesti amorosi, nell’accoglienza, negli occhi, nei silenzi, è facile riconoscere tratti e fattezze delle antiche madri e nonne del nostro Sud.

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