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Il successo di una soprano tenera e irrimediabilmente stonata

di Maria C. Fogliaro

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«La gente potrà dire che non so cantare, ma nessuno potrà dire che non ho cantato»: questo afferma Florence Foster Jenkins (una fantastica Meryl Streep) in Florence (Gran Bretagna, 2016, 110’). A settantasei anni, il 25 ottobre 1944, la celebre soprano dilettante newyorkese, unanimemente riconosciuta come la più stonata della storia, ha realizzato il suo sogno: ha cantato − accompagnata dal suo pianista Cosmé McMoon (Simon Helberg) − alla Carnegie Hall di New York, facendo il tutto esaurito con una esibizione assolutamente fuori dall’ordinario.

Psicologicamente e fisicamente fragile a causa di una malattia con la quale ha convissuto per cinquant’anni − questo raccontano il regista Stephen Frears e lo sceneggiatore Nicholas Martin −, Florence ha trovato nella musica la più efficace delle terapie, e nel suo secondo marito, St Clair Bayfield (un bravissimo Hugh Grant), un indispensabile e generoso sostenitore.

Senza St Clair, infatti, − che ha protetto la moglie dalla verità, per lei troppo dolorosa, della sua oggettiva mancanza di talento − nessuno dei sogni di Mrs. Jenkins si sarebbe mai realizzato. L’abile e pragmatico marito ha organizzato le terribili esibizioni canore di Florence al Verdi, il loro club privato, ma anche in luoghi prestigiosi come il Ritz, selezionando accuratamente il pubblico non certo scelto fra i melomani più esigenti; ha remunerato oculatamente il suo compiacente maestro di canto, Carlo Edwards (David Haig); e soprattutto ha pagato per venticinque anni i giornalisti di mezza New York per avere delle critiche favorevoli.  Insomma, tutto quanto i soldi e l’abilità a destreggiarsi nella vita possono fare St Clair l’ha fatto, e con successo. Soltanto un uomo, un giornalista del «New York Post», non si è fatto comprare. E sarà proprio la sua recensione − dopo l’esibizione del 1944 nell’auditorium newyorkese − a minacciare il fragile equilibrio di Florence.

Tratto da una storia vera, Florence racconta la vita di un’ereditiera innamorata della lirica che finanzia riccamente i protagonisti della scena musicale della Grande Mela, e che con una determinazione commovente e una passione autentica insegue − per tutta la sua esistenza − il sogno di diventare una grande soprano. Riuscendo a conquistare l’affetto di un vasto pubblico, che la segue non certo per le sue doti canore ma più probabilmente per il divertimento che le sue esibizioni e il suo entusiasmo suscitano. Il suo disco The Glory of Human Voice è uno dei più venduti di sempre della Melotone Records.

Anche St Clair, a suo modo, la ammira. Mosso da un amore autentico, ma certamente non convenzionale e per questo non semplice da decifrare, la sostiene con ogni mezzo, e la asseconda con grande tenerezza in tutte le sue bizzarrie − come nell’ossessione per l’insalata di patate o per una valigetta di cuoio che porta sempre con sé −.

Meschine e false sono, invece, le altre persone che circondano Florence. Quelle che la avvicinano solo per interesse personale, e la adulano mentendo spudoratamente − come fanno Carlo Edwards e Arturo Toscanini (John Kavanagh) − per approfittare della sua grande generosità, ma stando sempre bene attenti a non compromettere la loro reputazione. O come i giornalisti, che invece di comportarsi da professionisti si lasciano corrompere e si rendono complici di un successo in parte conquistato col denaro.

Tutto questo fa di Florence un film bello e vero, la cui accuratezza formale è esaltata dalla musica di Alexandre Desplat, dalla fotografia di Danny Cohen e dalle scenografie di Alan MacDonald.  E alla fine, nonostante la simpatia e la tenerezza ispirate da Florence − cui Meryl Streep è riuscita a infondere vero calore e grande umanità −, l’ipocrisia dei benestanti e dei benpensanti, che con il denaro dimostrano di poter comprare tutto, tranne il talento, conduce facilmente a considerazioni amare. Del resto, come ha scritto Don Rosa, seguace del grandissimo Carl Barks,  «The poor are crazy, the rich just eccentric».

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