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Cultura e politica in Italia, un rapporto ancora possibile

di Maria C. Fogliaro

Foto Archiginnasio (Bologna, 21 settembre 2015)

A fronte della decomposizione delle architetture della politica moderna e della estrema debolezza dei poteri istituzionali – cui si cerca di sopperire con il mito della stabilità dell’esecutivo e con il ricorso alla figura carismatica del leader –, una questione diventa cruciale nel nostro tempo e nel nostro Paese: è possibile in Italia, in una fase in cui la politica è completamente assorbita dalla contingenza, ricostruire un rapporto fra cultura e politica? In particolare, la politica è ancora narrabile e orientabile dalla cultura? O è definitivamente condannata a galleggiare incerta fra le emergenze e la perpetua gestione dell’esistente? Se, infatti, da un lato è vero che l’equazione fra sapere e potere è vivissima, dall’altro l’egemonia del discorso neoliberale ha prodotto, deliberatamente, una frattura quasi insanabile fra la cultura critica – capace di cogliere nel loro insieme le strutture del potere, e di guardare e nominare i problemi partendo da un punto d’origine preciso – e la politica. Si tratta, quindi, di capire se questo rapporto potrà essere – sia pure con difficoltà – ricostruito, oppure no.

Su questi interrogativi si sono confrontati a Bologna, il 21 settembre scorso – in occasione della presentazione del secondo numero della rivista «Pandora», fondata da studenti e da giovani ricercatori, e diretta da Giacomo Bottos –, tre autorevoli studiosi: Carlo Galli (filosofo politico e deputato), Gianfranco Pasquino (politologo e professore Emerito dell’Università di Bologna) e Paolo Capuzzo (professore di Storia Contemporanea all’Università di Bologna). L’incontro – dal titolo Potere e democrazia nell’ètà globale – è stato promosso dall’associazione Pandora, in collaborazione con la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, la Biblioteca dell’Archiginnasio e le Librerie COOP, e si è svolto presso l’Archiginnasio, in una Sala dello Stabat Mater affollata di universitari, studiosi e numerosi cittadini.

Rilevando il valore di un’iniziativa che vede, dopo qualche decennio, dei giovani impegnarsi in un vasto sforzo interpretativo collettivo –, Carlo Galli segnala il tentativo degli Autori di ripristinare un nesso forte fra cultura e politica, a partire dalla riscoperta dell’idea che esiste un «sapere strutturato», in grado di vedere le configurazioni strategiche della società, delle quali riesce a pensare l’origine, le interne contraddizioni, e il loro eventuale superamento. C’è qui – afferma Galli – «il rifiuto della autonarrazione tautologica del potere», espressa nella forma del comando neo/ordoliberale There’s no alternative, e, insieme, lo sforzo di produrre – da una prospettiva immanente al mondo – «un sapere che sa guardare dall’alto il gioco del potere». Una sorta di critica del presente, che smonti l’ideologia attuale del potere, e ne sveli le asimmetrie e l’intrinseca opacità. Di fronte all’affermazione di un potere totalizzante, le cui differenti forme si sovrappongono e si confondono fra loro, Galli rivendica, nell’attuale deserto culturale, l’azione emancipatrice del sapere critico, e l’urgenza «di parole dissonanti, meditate, e non gridate».

Per Gianfranco Pasquino, nell’ambito di un’analisi del potere, molte sono le questioni da definire, ma vi è, sopra tutti, un problema teorico-concettuale che non può essere eluso: comprendere dove, nell’epoca attuale, il potere, e più specificamente il potere politico, si trova. Contro l’idea largamente accettata che il potere oggi sia diffuso, sfuggente, inafferrabile, che sia da nessuna parte (nowhere) o altrove (elsewhere), Pasquino afferma che esso è in realtà individuabile e riconoscibile, e che i cittadini hanno sempre la percezione di dove sia. In un’epoca in cui la politica ha bisogno dei media per esistere, il potere si concentra laddove l’informazione è distribuita e manipolata; si manifesta «come il potere che fa e che fa fare delle cose», e che è capace di imporre l’agenda politica ai decisori; si esprime, anche, nel modo col quale vengono risolti i conflitti, che – se temperati – sono indispensabili alla democrazia. La globalizzazione non spazza via le decisioni democratiche, ma solo le indecisioni, che, alla fine, sono punite dai cittadini, perché – ha ricordato il politologo torinese, riprendendo Lincoln – la democrazia è sempre il «governo del popolo, dal popolo, per il popolo».

Nell’affrontare il tema del potere e del suo rapporto con la democrazia, l’ambito oggetto di osservazione – segnala nel suo intervento Paolo Capuzzo – non può essere solo quello occidentale, ma tutte le grandi questioni che ci interpellano devono essere messe in rapporto col più vasto spazio globale, per essere comprese e illuminate al meglio. Se, ad esempio, si volge lo sguardo al progetto egemonico oggi dominante da una prospettiva più generale, si vedrà – afferma Capuzzo – che le aree di resistenza al disegno neoliberale sono molteplici e, probabilmente, maggioritarie, anche se al momento incapaci di produrre un’efficace alternativa. Negli anni Novanta – afferma lo storico bolognese – «con la caduta del comunismo, gran parte delle sinistre continentali abbandonano un patrimonio di riflessione» eccezionale, «cercando maldestramente di inseguire il liberismo sul suo terreno». Per uscire dal discorso politico oggi dominante e andare verso una ripoliticizzazione della società è necessario – per Capuzzo – che la critica dell’egemonia o del governo entrino nel linguaggio e nella riflessione pubblica; che questo linguaggio sia capace di nominare le «parti» e di «distinguere l’amico dal nemico»; e che si affermino classi dirigenti, non solo politiche, capaci di situarsi nel fondamentale crocevia tra sapere e potere.

La complessità e i termini ampi delle interrogazioni sono palesi, e il titolo assegnato all’incontro già li presagiva. La politica – è noto – si misura con la contingenza delle cose umane e si struttura attraverso i dislivelli di potere fra persone e gruppi sociali. Se vogliamo che a prevalere sia il potere democratico, e non quello opaco e nascosto, la politica deve ritrovare la capacità autonoma di guidare la società in una certa direzione. A questo fine è indispensabile tornare a pensare criticamente e ristabilire – se mai è ancora possibile – un rapporto vivo con il sapere. In una democrazia che si prende sul serio è indispensabile che la parola «potere» torni a essere nominata apertamente nel discorso pubblico – abbandonando la finzione di una mal interpretata «trasparenza» – e ritornare, così, a fare i conti con l’idea che senza potere non si può mai agire efficacemente.

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