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Michele Bulgarelli: “Scuola, sanità e salari, le priorità della mobilitazione della CGIL bolognese a 130 anni dalla sua nascita”

a cura di TOMMASO CERUSICI (Fondazione Claudio Sabattini)

in collaborazione con www.inchiestaonline.it

Michele Bulgarelli: “Scuola, sanità e salari, le priorità della mobilitazione della CGIL bolognese a 130 anni dalla sua nascita”

| 20 Aprile 2023 | Comments (0)

 

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Michele Bulgarelli: “Scuola, sanità e salari, le priorità della mobilitazione della Cgil bolognese a 130 anni dalla sua nascita”

a cura di Tommaso Cerusici (Fondazione Claudio Sabattini)

Il 13 gennaio scorso il XX Congresso della Camera del Lavoro di Bologna ha eletto Segretario generale Michele Bulgarelli, già Segretario dei metalmeccanici bolognesi dal 2017. Tommaso Cerusici lo ha intervistato per Inchiesta on-line, in occasione del 130° anniversario della fondazione della Camera del Lavoro, dopo le conclusioni del Congresso nazionale della Cgil e della mobilitazione unitaria contro le politiche del Governo.

Partirei proprio dal Congresso della Cgil appena concluso. Che valutazione ne dai?

Il nostro congresso ha dimostrato che la Cgil è l’ultima grande organizzazione di massa presente nel nostro Paese. Solo la Fiom di Bologna – che ancora guidavo durante la fase congressuale – ha svolto più di mille assemblee di base nei luoghi di lavoro. Nonostante un mondo del lavoro sempre più frantumato, fra ricorso ad appalti e subappalti, precarietà, turni e smart working, abbiamo raggiunto più lavoratori e iscritti possibile, discutendo con loro delle prospettive e del futuro della CGIL e, più in generale, del sindacato.

Il documento di maggioranza ha permesso di concentrarci su alcune priorità, che hanno attraversato tutti i congressi: l’emergenza salariale, la salute e la sicurezza sui posti di lavoro, la difesa dello stato sociale attraverso i due pilastri della sanità pubblica e della scuola “costituzionale”, cioè non schiacciata dalla ideologia del merito e dai processi di aziendalizzazione.

Un congresso che – mi pare – ha rimesso al centro la partecipazione dei lavoratori…

La Cgil ha scommesso proprio su questo. Noi vogliamo costruire un’alternativa alla passività sociale, che è l’altra faccia dell’altissimo livello di astensionismo che abbiamo visto anche alle ultime elezioni. Perché se è vero che i partiti di destra hanno indubbiamente vinto le elezioni non hanno comunque preso la maggioranza dei voti e, soprattutto, sono più i cittadini che si sono astenuti che quelli che li hanno votati. Di tutto questo, di questi numeri, il Governo se ne dovrebbe sempre ricordare. La Cgil, quindi, prova a scommettere sul protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso una pratica radicale di democrazia, cioè la democrazia come diritto dei lavoratori di votare sempre su ciò che li riguarda oltre che sui propri rappresentanti. Dobbiamo affermare una democrazia intesa non come delega ma come responsabilizzazione.

Questa scelta democratica ha riaperto anche una fase di mobilitazione contro le politiche economiche del Governo, con le assemblee e le manifestazioni…

Certamente, si avvia una fase di mobilitazione diffusa e, auspicabilmente, unitaria nei confronti del Governo. Si chiude il congresso e si torna alle assemblee nei luoghi di lavoro, avviando un processo di mobilitazione che non può che partire dalla discussione e dall’ascolto delle lavoratrici e dei lavoratori, perché di fronte alle tante emergenze c’è bisogno di un loro protagonismo, altrimenti rischiamo un processo di regressione e di imbarbarimento sociali. La strage di Cutro e il tentativo di criminalizzare la flotta civile nel Mediterraneo hanno segnato una parte del nostro percorso congressuale. Io non ho fatto un solo congresso in cui non venisse presentato dalle delegate e dai delegati un ordine del giorno a sostegno delle Ong sotto attacco da parte del ministro Piantedosi e di tutto il Governo. Inoltre siamo di fronte anche a processi evidenti di revisionismo storico, come l’attacco alla dirigente scolastica del Liceo Da Vinci di Firenze – dopo l’aggressione squadrista agli studenti – che ha prodotto una prima risposta di massa con la grande manifestazione che, a mio avviso, fa ben sperare sul fatto che esiste un Paese che non si rassegna.

Hai nominato prima il grande tema della sanità pubblica. La mobilitazione unitaria come mira a coinvolgere anche questo settore?

Il congresso ha sancito la maggiore consapevolezza da parte di tutta la Cgil delle fragilità del sistema sanitario. E sono fragilità – lo voglio dire in maniera molto netta – che sono state accentuate dalle privatizzazioni e dall’impoverimento lavorativo che hanno investito quel settore negli ultimi anni. La sanità pubblica non è stata considerata sufficientemente strategica da parte di chi ci governa, salvo poi svegliarci un giorno con una pandemia e scoprire improvvisamente che quel settore e quei lavoratori erano essenziali. Sono stati loro a tenere in piedi l’Italia nel momento più difficile.

Oggi mi sembra che, finita la pandemia, siano finite anche tutte le buone intenzioni. Non possiamo tornare indietro, perché a farne le spese sarebbero i cittadini e i lavoratori che rappresentiamo, soprattutto la parte più esposta del nostro Paese: i ceti popolari, i lavoratori dipendenti e i pensionati, che sarebbero schiacciati dai processi di ulteriore privatizzazione della sanità.

Rispetto al tema della sanità, che situazione si vive a Bologna, in un settore così importante?

Più che di situazione bolognese parlerei di situazione regionale. Io penso che la sanità debba essere, insieme alla scuola, ai salari e alla sicurezza sul lavoro, il centro del nostro agire nel prossimo futuro. Nonostante l’Emilia Romagna sia considerata una regione virtuosa, stiamo rischiando un avvicinamento a un modello come quello lombardo, centrato su alcune eccellenze ospedaliere e che però si dimentica della prossimità e della vicinanza a tante fragilità quotidiane. Di fronte al rischio del collasso del sistema sanitario (anche nella nostra Regione) serve una risposta generale, che deve partire dai lavoratori del settore, avendo poi la capacità di generalizzarsi. Perché attorno ai lavoratori della sanità, che devono trovare la forza e il coraggio di scioperare tutti insieme, dai dipendenti degli appalti ai medici passando per tutti gli operatori del settore, deve partire una mobilitazione che richieda anche elementi di coerenza dei comportamenti, a partire dalle pubbliche amministrazioni. Perché – bisogna avere il coraggio di denunciarlo – purtroppo troppe volte la sanità pubblica è il primo soggetto che permette e favorisce processi di privatizzazione.

Che soluzioni dovrebbero essere messe in campo allora?

Innanzitutto ci vuole la solidarietà tra tutti i lavoratori del settore, superando tutti i piccoli e grandi corporativismi. Il lavoratore degli appalti non può avere una paga da fame; i dipendenti pubblici devono avere il giusto riconoscimento economico; servono inoltre politiche pubbliche per affrontare l’emergenza abitativa, perché il rischio che abbiamo in una città come Bologna – con affitti ormai vicini ai livelli di Milano – è quello che i posti assegnati attraverso i concorsi pubblico vengano rifiutati a causa dei costi insostenibili della vita. A mio avviso è necessaria anche l’abolizione del numero chiuso per le facoltà di medicina; così come ci dobbiamo impegnare tutte e tutti con rigore affinché il welfare aziendale sia integrativo e non sostitutivo della sanità pubblica. Io sono però convinto che nella società ci siano già oggi le forze per affrontare questa grande questione: a noi spetta il compito e la responsabilità di costruire la coalizione.

Veniamo all’altro tema che avevi posto: la scuola pubblica. Tra l’altro ho letto recentemente di una vertenza contro una scuola privata bolognese che vuole chiudere e lasciare a casa tutti i lavoratori. Come sta evolvendo quella vicenda?

La scuola è l’altra grande preoccupazione, che dobbiamo trasformare in una vertenza generale.  Penso che oggi gli insegnanti debbano trovare il coraggio di difendere la loro professione, che deve essere adeguatamente retribuita, perché non è con le gabbie salariali che si risolve il problema. Bisogna ridare dignità alla professione, ma bisogna ripartire da un protagonismo di quei lavoratori, che prendano coraggio del loro ruolo e del fatto che sono un asse portante del Paese. E va rimessa al centro la scuola pubblica, perché anche i fatti recenti di cronaca sindacale bolognese ci dimostrano che i finanziamenti pubblici alle scuole private sono sempre stati sbagliati.

Vedere oggi, a Bologna, che una scuola privata gestita da un ordine religioso si permetta – dopo aver preso soldi pubblici dallo Stato e dal Comune – di chiudere, licenziando tutti gli insegnanti, creando problemi ai bambini che studiano e agli universitari che in quel convitto vivono, è una cosa intollerabile. Sarebbe il primo soggetto privato, nella nostra città, che viola il Patto per il Lavoro e per il Clima, sottoscritto con la Regione Emila Romagna. A Bologna poi, città dove è stato vinto un referendum contro il finanziamento pubblico alle scuole private, sarebbe doppiamente intollerabile, confermando – peraltro – appieno la giustezza di quel voto, che voleva denunciare un sistema che appena può segue solo la massima speculazione. Se fosse stata una multinazionale, tutti ci saremmo indignati. Quella vertenza non si può non vincerla, per rispetto alle lavoratrici e ai lavoratori, per la storia del nostro territorio e per questo va raggiunto un accordo in linea con il Patto per il Lavoro e per il Clima.

Hai posto il tema della democrazia e del protagonismo dei lavoratori rispetto alla mobilitazione. In giro per l’Europa vediamo delle piazze che si riempiono – penso alla Francia sulla riforma delle pensioni, ma anche all’Inghilterra dei mesi scorsi sui salari e l’inflazione – ma in Italia questo non è successo finora. Che spiegazione ti dai?

Ho sempre seguito con grande interesse quello che succede in Europa, ma non penso che si possa generalizzare, perché si tratta di situazioni molto diverse l’una dall’altra. Da un lato ci sono vertenze molto dure sui salari, per gli aumenti, come in Germania e in Inghilterra. E questo ci segnala un punto preciso: le categorie della Cgil che stanno avviando le vertenze per i rinnovi dei contratti nazionali più importanti, devono inserire nelle piattaforme – tra l’altro in linea con quanto deciso al congresso, che ha affermato la necessità degli aumenti salariali a tutti i livelli – il superamento dell’IPCA depurato dei beni energetici importati, affermando quindi la necessità di recuperare tutta l’inflazione. Questo vale ancora di più in un territorio come Bologna, dove di fatto la disoccupazione non c’è e le aziende si litigano la manodopera qualificata. Penso che le suggestioni che ci arrivano da Germania e Inghilterra possano quindi essere utili anche a noi in Italia.

Dall’altro lato, in Francia, abbiamo invece uno scenario ben diverso: la resistenza contro un provvedimento del Governo, più simile alla resistenza che mettemmo in campo ai tempi del Jobs Act, con tre scioperi generali della CGIL e della FIOM in pochi mesi. In Francia c’è però – secondo me – un movimento molto interessante, per due elementi: da un lato, la catalizzazione di un malcontento diffuso contro le elite, rappresentate da Macron, un po’ quello che si era già visto con la mobilitazione dei gilet gialli; dall’altro, il protagonismo giovanile e studentesco nelle manifestazioni sulle pensioni, che è oggettivamente una novità.

In Italia, anche sulla spinta della mobilitazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil, potrebbe ripartire una stagione di lotta?

In Italia non siamo di fronte ad un provvedimento monstrum da abbattere, come in Francia. Siamo di fronte ad un Governo che si è insediato e incomincia a dispiegare i suoi orientamenti di lungo periodo, un Governo molto saldo a differenza, per esempio, di quello francese, che non ha retto al voto in Parlamento e quindi è dovuto ricorrere a una procedura speciale per approvare la riforma sulle pensioni. Mi sembra che in Italia, invece, il Governo goda di una maggioranza parlamentare molto forte. Il compito del sindacato – e io penso sia giusta la scelta della Cgil di ricercare fino in fondo l’unità sindacale – è quello di avviare una mobilitazione di lunga durata, che parta dai luoghi di lavoro, che ovviamente utilizzerà lo sciopero generale nel momento in cui il Governo non darà risposta alle nostre richieste. Sapendo che il clima che si respira a livello globale non è dei migliori, perché sono in corso repressioni dei movimenti sindacali e democratici in tutto il mondo: dalla Birmania, a Hong Kong, alla Thailandia al Perù, dalla Bielorussia alla Turchia. C’è un crescente autoritarismo, ma c’è anche una stagione dei movimenti che difendono lo stato di diritto e lo stato sociale, ad esempio in Israele e Francia. Penso che in Italia dobbiamo partire con questo spirito: dobbiamo difendere la democrazia, nata dalla Resistenza, anche contro i tentativi di manometterne l’impianto istituzionale, con il mix perverso tra autonomia differenziata e presidenzialismo. Dobbiamo avere un ancoraggio valoriale forte e pretendere una democrazia che sia anche sociale. Non dimentichiamoci che nella nostra Costituzione è incardinato il diritto di sciopero. Penso, quindi, che siamo di fronte alla necessità di costruire una mobilitazione di lunga durata e che serva mantenere coerenza e credibilità con i lavoratori. Una fuga in avanti rischia solo di indebolire il movimento sindacale sul medio-lungo periodo e non invece di favorirlo. Anche perché questo Governo punta a costruire un blocco sociale di riferimento anche nel mondo del lavoro, magari non in quello della grande fabbrica o del pubblico impiego, ma nella piccola impresa, tra gli artigiani e il lavoro autonomo.

Siamo in una fase di guerra, anche se sembra che ci siamo tristemente abituati. La Cgil e il mondo cattolico sono stati tra i pochi a mobilitarsi fin da subito. Perché si fa così fatica a mobilitare le persone su questo tema?

Voglio dire che la Cgil di Maurizio Landini, in particolare dopo l’assalto alla nostra sede nazionale e durante il nostro ultimo congresso, ha ritrovato una centralità nel panorama sociale e politico del Paese. Anche a Bologna siamo ritornati a essere un punto di riferimento per tante e differenti mobilitazioni, che chiedono il nostro supporto e il nostro coinvolgimento: dalla comunità democratica brasiliana alle famiglie arcobaleno, dalla comunità dei giovani iraniani della diaspora al variegato mondo pacifista. Purtroppo però la guerra ormai è considerata normale, quasi una seccatura da rimuovere dal discorso pubblico, di cui ci si rende conto solo quando gli effetti della guerra producono elementi negativi sulla vita di tutti i giorni. Dobbiamo, invece, renderci conto che siamo di fronte ad un processo di deglobalizzazione e di allontanamento tra le sfere economiche dei Paesi. Questo può avere alcuni effetti di reshoring in determinati settori ma quello che mi preoccupa è l’effetto che questo potrà avere su un già debole movimento sindacale internazionale. Il rischio evidente è il nazionalismo e la chiusura di ognuno nel proprio spazio nazionale, sapendo bene cosa questo ha prodotto nella storia.

C’è poi un tema di distanza con la politica, per esempio su cosa pensano davvero gli italiani sull’invio delle armi. La stragrande maggioranza è contraria – in base ai sondaggi – ma il Parlamento vota sempre in maniera compatta, quasi unanime, per l’invio. Temo insomma che ci sia un processo grave di assuefazione, che si traduce anche in un rischio di ulteriore indebolimento della solidarietà internazionale.

Avete da poco celebrato il centotrentesimo anniversario della fondazione della Camera del Lavoro di Bologna. Quali sono le ragioni della sua attualità anche dopo 130 anni di vita?

L’istanza alla base della nascita della Camera del Lavoro di Bologna, il 26 marzo 1893, ci riporta – 130 anni dopo – alla necessità di avere un sindacato che si fonda sulla solidarietà, per riunire un mondo del lavoro frantumato a causa dalla scomposizione dei processi produttivi e della precarizzazione dei rapporti di lavoro. La Camera del Lavoro è istanza di unità e di ricomposizione del mondo del lavoro, di studio e di ricerca, ma anche luogo di confronto con le amministrazioni pubbliche, di costruzione di relazioni con i movimenti della società civile.

Proprio con questo spirito – quello di un sindacato generale e mai corporativo –   a cinquant’anni di distanza abbiamo voluto rileggere un accordo firmato dalla CGIL e dal Comune di Bologna (il 30 marzo 1973) in cui si diceva che il sistema delle imprese non poteva essere indifferente alle rivendicazioni sociali e, attraverso la contrattazione aziendale, le imprese dovevano farsi carico dei bisogni crescenti della classe lavoratrice. È l’accordo quadro che apre alla stagione dell’1% sociale.

Pochi giorni fa, il 3 aprile 2023, abbiamo sottoscritto un accordo con il Comune di Bologna – denominato “Accordo per la coesione sociale nella città di Bologna” – che, riprendendo lo spirito di 50 anni fa, afferma che di fronte all’emergenza abitativa il sistema delle imprese deve dare un contributo effettivo nell’ottica di una vera responsabilità sociale d’impresa.

Dopo 130 anni la Cgil di Bologna è quella che continua a studiare e sindacalizzare, a praticare una contrattazione inclusiva e di sito per aumentare i salari, a partire dagli appalti, perché lì si annida il lavoro povero e lo sfruttamento; ma è anche la stessa organizzazione che continua a occuparsi di tematiche generali: la casa, la salute, la conoscenza. Dal particolare al generale, unendo e costruendo solidarietà tra le persone che per vivere devono lavorare. Su queste basi siamo nati nel marzo del 1893 e, sulle stesse basi e con gli stessi valori, vogliamo continuare il nostro percorso consapevoli che c’è oggi più che mai un grande bisogno di sindacato, e di un sindacato generale, mai aziendalista e corporativo, coerente, rivendicativo, contrattuale e democratico.

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