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Pnrr ambiente e lavoro

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Appuntamento alla Festa nazionale dell’Unità a Bologna.

Sala Franco Marini ore 20.00

PUBBLICO È MEGLIO, LA VIA MAESTRA PER RICOSTRUIRE L’ITALIA

Con gli autori Altero Frigerio e Roberta Lisi discutono Marina Cantilena, Gianna Fracassi, Belinda Gottardi modera Agnese Rapicetta.

La denuncia non è nuova ma l’allarme è forte: del Pnrr, dei progetti e delle riforme ad esso collegate, i cittadini cosa ne sanno? Quanto ne hanno capito? E cosa si aspettano davvero? In Parlamento l’hanno letto in pochi e l’hanno discusso per titoli in tre giorni tra Camera e Senato. Nei cosiddetti corpi intermedi è roba da specialisti e sui media se ne parla solo per le liti tra le forze politiche. Eppure, non stiamo solo parlando di ingenti risorse che la Ue ci ha messo a disposizione per i prossimi sei anni con ricadute sui prossimi cinquanta. Abbiamo di fronte un processo che inciderà nel profondo sugli assetti produttivi, sociali, istituzionali del Paese. Ma di conoscenza dei contenuti, consapevolezza della portata del Piano, partecipazione e controllo democratico siamo all’anno zero. E sbaglia di grosso chi in modo ragionieristico riduce il Pnrr alla somma degli euro in arrivo, in numero di infrastrutture da realizzare, in cantieri da aprire o si ferma ai bei titoli della digitalizzazione o della transizione ecologica. Proprio su quest’ultimo specifico aspetto, a partire dalle conversazioni contenute nel libro edito da Donzelli “Pubblico è meglio. La via maestra per ricostruire l’Italia”, si è sviluppato un interessante confronto tra Gianna Fracassi (vicesegretaria generale della Cgil), Marco Gisotti (giornalista ambientalista impegnato nella comunicazione del Mite) e Angiolo Tavanti (presidente Associazione Valore Lavoro) chiamati dai curatori del libro (Altero Frigerio e Roberta Lisi) ad esprimere le loro opinione su alcune tematiche che assumono valore generale in questo orizzonte: perché l’ambiente è importante, il clima è più caldo, l’energia e l’industria di questo pianeta devono essere ripensate e il lavoro può e deve cambiare in questa fase di passaggio?

Il clima sta cambiando in modo impressionante sotto i nostri occhi. Ne vediamo gli effetti ogni giorno. Basti l’esempio della pioggia in Groenlandia, caduta dove cadeva la neve, un episodio impressionante. Se non verrà fermata la deriva provocata dall’aumento della Co2 e da altre cause concorrenti come l’aumento del metano in atmosfera, la situazione – già grave – peggiorerà sempre più velocemente. Senza esagerare e dipingere un futuro apocalittico, il rischio è che la vita degli esseri viventi, a partire dagli umani, cambi in modo irreversibile e il pianeta diventi sempre più inospitale. Anche a detta degli intervenuti, latita il coraggio di prendere le iniziative necessarie in tempi rapidi per bloccare il cambiamento del clima, a partire dalla temperatura. E anche il nostro Pnrr va nella giusta direzione più a parole (ancora incerte e un po’ confuse) che nei fatti (che aspettiamo per valutare con cognizione di causa).

Si è convenuto, come si sostiene anche nel libro, che occorra cambiare profondamente il modello di sviluppo economico attuale, altrimenti il clima arriverà ad un punto di non ritorno. Sono necessarie politiche di occupazione che accompagnino il passaggio dal sistema economico oggi prevalente a quello futuro. È chiaro che per realizzare gli obiettivi occorre che il pubblico, lo Stato stimolino e realizzino politiche per dare risposte in avanti ai problemi da affrontare. Le resistenze al cambiamento sono forti e possono essere vinte solo con una chiara battaglia per innovare lavoro, investimenti, ricerca, istruzione, welfare. Invece, economisti, vertici di aziende partecipate dallo Stato, ministri del governo Draghi hanno messo piombo nelle ali dell’innovazione e della transizione ecologica, ad esempio sulla produzione energetica, sulla stessa mobilità sostenibile.

E sul fronte lavoro non si avverte alcuna novità positiva. Se ad esempio prendiamo in esame il tema della logistica con l’esplosione dell’e-commerce e della consegna a domicilio legati ai lockdown (ma non solo), constatiamo che in questo comparto ormai essenziale del nostro sistema manifatturiero si concentrano diversi fenomeni: il consumo di suolo per nuovi capannoni, lo sfruttamento della manodopera con una organizzazione del lavoro ai limiti dello schiavismo, l’inquinamento legato al trasporto su gomma. Basta allora cambiare il nome al ministero? O il mercato, la globalizzazione senza freni, anche al tramonto del liberismo, riescono sempre a farla da padroni?

Un altro elemento connesso al rapporto Pnrr-ambiente è il grande tema della decarbonizzazione che a sua volta incrocia a 360° gradi quelli del lavoro e dell’energia. Mentre si sottoscrive l’impegno per cui nel 2035 dobbiamo avere un abbattimento di CO2 del 55% e nel 2050 non produrne più, c’è chi è pronto a sostenere che occorra rinviare la scadenza del 2025 per chiudere le centrali a carbone. Non si vede all’orizzonte un piano organico, per fotovoltaico, eolico in particolare offshore, per altre fonti rinnovabili, per l’uso dell’idroelettrico per stabilizzare la rete elettrica.

 

La crisi climatica, così come il Covid o il fenomeno delle migrazioni, ci dicono che non basta più tenere sott’occhio il Pil. C’è una richiesta, dei cittadini come del mondo produttivo, di più Stato per assicurare protezione, benessere, sicurezze varie. E’ bene partire da qui anche per dare senso e futuro a quella nuova sensibilità che si sta sviluppando cercando di offrire analisi e gambe, per stare al titolo del libro, al principio che pubblico è meglio, ovvero , rovesciando i dogmi liberisti, dare sostanza allo slogan “più Stato e meno mercato” affinché esso non resti un predicare nel deserto bensì un approccio che solleciti nuova attenzione.

 

Da qui un’ultima considerazione di scenario sviluppata su vari piani dai tre relatori Fracassi, Gisotti e Tavanti . Le risorse del Pnrr servono a cambiare e ricostruire davvero il paese o a richiamare in vita il gattopardo che in Italia ha quasi sempre prevalso? Nelle conversazioni che compongono il libro si chiede ai vari interlocutori (da Rosy Bindi ad Andrea Roventini, da Maria Cecilia Guerra a Gaetano Azzariti, da Anna Donati a Vincenzo Vita ed altri) di rispondere alla domanda: perché pubblico è meglio? Ovvero: qual è il progetto-paese che serve mettere in campo dopo la pandemia? Senza una grande e larga partecipazione democratica, questo è il pericolo sollevato nel libro e ripreso nel dibattito, le ingenti risorse a disposizione faranno la fine dell’acqua sulla sabbia e prevarranno i poteri che non vogliono cambiare. Per una volta che la Commissione europea ha avuto coraggio, sarebbe bene che l’Italia mettesse in campo le sue energie migliori sul versante dell’innovazione e questo nelle condizioni attuali è un compito che tocca anzitutto al governo e a chi lo guida. Ma è anche una grande responsabilità sulle spalle dei partiti, dell’associazionismo organizzato, delle parti sociali, sindacato compreso.

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