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Ripartiamo dai territori – Marco Macciantelli

Dopo l’incontro di sabato al centro Biancolelli, presso il parco poi intitolato a Maurizio Cevenini, aperto da Raffaele e concluso da Stefano – sala piuttosto partecipata, alla presenza di un certo numero di segretari di circolo – questa Direzione dovrebbe essere vissuta come un’occasione di ulteriore confronto, in un momento in cui, come sappiamo, ce n’è un particolare bisogno.

Nel fine settimana, in piazza Santo Stefano, c’è stato un appuntamento promosso da Sandra Bonsanti, di “Libertà e Giustizia”, con figure della cultura, del diritto, dell’impegno civile e del sindacato, alla presenza di nostri parlamentari.

Il Pd è un frutto dei valori costituzionali, un loro naturale sviluppo, dal secolo scorso a quello nuovo.

Nel fine settimana vi è stata anche una significativa esternazione del capo dello Stato. Riprendo un titolo di stamattina: “Napolitano: il governo è a termine”. Una presa di posizione che toglie alibi a chi pensa di buttar la palla in avanti, costringe tutti ad assumersi la proprie responsabilità, nel fare subito ciò che serve e che fa parte del programma relativamente ai due punti che devono caratterizzare l’azione del governo: questione sociale e riforme, a partire dal superamento del porcellum.

 

Come sappiamo, il Pd non ha vinto le elezioni.

Insufficienze nella nostra proposta per il Paese, nella conduzione della campagna elettorale, nella gestione del dopo-voto. Pur condividendo amarezza e disorientamento, credo che una organizzazione politica dai propri errori debba imparare almeno una cosa: a non commetterli più.

In fondo, cos’è che distingue l’impressione ricevuta dalla notizia della vittoria di Deborah Serracchiani in Friuli, o dall’esito delle elezioni amministrative di domenica scorsa, rispetto alla depressione successiva al voto del 24-25 febbraio?

La sorpresa. Se presumi di avere già vinto, e non vinci, la delusione è inevitabile, come in effetti è stata.

Eppure, nelle nostre discussioni in questa direzione o in esecutivo provinciale, tra gennaio e febbraio, quante volte ci siamo ripetuti: “come si fa a pensare di avere già vinto”?

Purtroppo le cose sono andate così. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, ora, è il senno di poi. Aver dato per acquisito quel risultato ci ha distratti da quello che stava accadendo. La battaglia che si stava combattendo nel Paese, alla fine con uno scarto minino, determinando uno stallo, pressoché, perfetto.

Quel che è accaduto è uno schiaffo che ci brucia ancora addosso e che deve farci guardare in faccia la realtà con tutta la lucidità necessaria.

 

Il Cattaneo ci ha restituito, in modo impietoso, l’esito delle ultime elezioni. Guardando ai valori assoluti, ancor prima che alle percentuali.

Ebbene, se davvero vogliamo fare i conti con gli ultimi vent’anni, non possiamo non rileggere la sequenza del voto che più da vicino ci riguarda.

Considerando le forze costituenti del Pd, secondo il Cattaneo, siamo passati, nell’arco degli ultimi 7 anni, dai 19 milioni del 2006 ai 10 milioni attuali: quasi un dimezzamento.

Anche sul voto di domenica scorsa, occorre un po’ di cautela. Sempre il Cattaneo valuta che il Pd abbia subito una contrazione pari quasi al 40% dell’elettorato che lo aveva scelto nel febbraio scorso.

Ma c’è una novità.

La novità è che M5s raccoglie meno di un terzo dei voti ricevuti rispetto alle politiche. Cioè, nell’arco di tre mesi, il M5s, forse anche a causa delle scelte fatte in alcuni passaggi per il governo e per la presidenza della Repubblica, prende meno di un terzo dei voti.

Lasciamo da parte i giudizi affrettati. Tuttavia non pochi osservatori della vicenda politica nazionale evidenziano una contraddizione, che non sappiamo se e in che misura andrà accentuandosi, tra un’affermazione elettorale indubbia del M5s e forme sin troppo imbarazzanti di autoritarismo nella guida di quel movimento.

La gente dà fiducia, ma poi presenta il conto e se non hai portato a casa dei risultati, ma hai prodotto solo degli insulti, dei contrasti e delle polemiche, giustamente, non guarda in faccia a nessuno.

 

Tutta la politica in questa fase sembra restringere la sua base elettorale. Vince chi indietreggia di meno. Sembra indietreggiare di meno, nelle ultime amministrative, chi fa una proposta più legata al territorio. Non operazioni di marketing, relazioni con le comunità locali.

A Imola vinciamo in virtù di questo, di una proposta politica, pensata, non in astratto, ma in relazione alla situazione della comunità imolese, orientata ad aprirsi verso un mondo due volte civico, nel senso dell’impegno politico e della rappresentanza sociale.

La contendibilità, in vista del prossimo anno, quando andranno in scadenza la gran parte dei nostri Comuni, rimane tutta, nulla deve essere preso sottogamba, producendo, sin d’ora, ciò che occorre, in termini di valorizzazione del buono che è stato fatto, di apertura e di innovazione, ma il caso imolese dimostra che ce la si può fare.

Il tema è recuperare alla partecipazione e al protagonismo pezzi ampi di società civile, superando diffidenze, ostilità, senso di estraneità.

Sono il frutto avvelenato della crisi che va aggravandosi. I segni di un malessere che abbiamo già visto all’opera durante la campagna elettorale, che durante la campagna elettorale non siamo riusciti a cogliere e a intercettare.

Una domanda di radicalità che si compone di sofferenza sociale, tra perdita del lavoro e frustrazione nel non trovarlo, unite ad un altrettanto schietto rancore verso i partiti. Il prezzo della crisi insieme al prezzo della politica. Entrambi considerati un costo non più sopportabile.

Occorre sapere che, se non c’è un cambio di passo anche nel rapporto tra il nostro Paese e i vincoli in sede europea i rischi della rottura di un equilibrio saranno non dietro di noi, ma davanti a noi.

Basta fare due chiacchiere in un bar per sentirlo, senza tanti giri di parole. Nel momento più acuto di una crisi che va avanti dal 2008, per la vita normale di tanti cittadini, l’inconcludenza della politica non è più tollerabile.

Nonostante le nostre difficoltà o forse in relazione ad esse, il Pd continua ad essere un motivo di interesse, come se rappresentasse un residuo di speranza per questo Paese.

Se immaginiamo il futuro dopo Berlusconi e Grillo facciamo oggettivamente fatica a vedere qualcosa. Se guardiamo al Pd sappiamo che vi sono tanti limiti, ma insieme a diverse opzioni possibili. Il congresso deve servire anche a questo: a fare dei bilanci, spietati se necessario, ma anche a lanciare nuove sfide.

Dobbiamo fare di questo un motivo di racconto franco, sincero, col Paese, senza presumere di avere ricette in tasca, perché il Paese, i cittadini, la nostra gente ci aiutino a capire meglio quello che serve e ad uscire in avanti da questo situazione.

 Un breve cenno alla vicenda del governo. Pier Luigi Bersani, subito dopo il voto del 24-25 febbraio, sulla base di un indirizzo della Direzione nazionale espresso all’unanimità, con un solo astenuto, ha accettato di verificare le condizioni per un governo di cambiamento, nel quale in molti a Bologna abbiamo creduto.

Ci sono diversi motivi per cui il governo di cambiamento non si è verificato, in una situazione comunque complessa. Uno di questi, non l’unico, ma neppure il più irrilevante, è che, in un Parlamento spaccato sostanzialmente in tre, a parte Scelta Civica, il M5s ha ritenuto di non raccogliere la sfida.

Il governo Letta discende da quella chiusura del M5s. E’ un governo di compromesso tra forze che erano e che restano avversarie e alternative. Una soluzione che in ogni caso interpella la capacità, da parte del Pd, di fare l’agenda, piuttosto che subirla. Le parole di Giorgio Napolitano chiariscono ulteriormente il suo carattere di scopo.

 

Una ricerca svolta dall’Atlante Politico di Ilvo Diamanti, all’indomani di tutto ciò che è accaduto, ha evidenziato come quasi il 90% degli iscritti al Pd auspichi che il Pd rimanga unito. Sorprendente, eh? Senza fare della retorica buonista, il sentimento prevalente della nostra gente continua ad essere questo.

Chi ha avuto occasione di partecipare a qualche assemblea lo ho visto, lo ha sentito.

Non v’è dubbio che occorra andare oltre la coabitazione tra le culture, oltre l’alleanza interna tra pezzi, verso un soggetto che, in ogni sua espressione, trasmetta l’idea di essere una sola cosa.

Se continuiamo ad agire senza una sintesi, rischiamo di riprodurre schemi organizzativi che stanno insieme non in virtù di un sentire comune, ma che sono destinati a divergere tra linee non compatibili, proprio quando è in questione la nostra responsabilità nel definire le scelte per il Paese. Come a proposito del Presidente della Repubblica.

La cosa francamente non accettabile è un partito che si propone di essere architrave costituzionale del Paese, il più inserito nella democrazia del Paese, che, proprio nel momento in cui pone mano agli assetti della Repubblica, non riesce a conseguire gli obiettivi indicati, artefice e vittima del fuoco amico.

Lo scandalo della mancata elezione di Romano Prodi è tutto qui.

Sicuramente il Pd di Bologna condivide col Pd nazionale tante inadeguatezze, però in quella vicenda ha avuto modo di assumere una posizione chiara. Non si è fatto condizionare da twitter o facebook, ha raccolto le sollecitazioni di tanti iscritti ed elettori in carne ed ossa, arrivando a rivolgere un appello, insieme al regionale, perché vi fosse una necessaria riflessione.

 

Alle nostre spalle, anche l’esito del referendum a Bologna sulle scuole paritarie. Sul quale mi limito ad esprimere la vicinanza a chi, specie in questo momento, si impegna nel governo locale a favore di una scuola pubblica di qualità, come ha fatto e sta facendo il Comune di Bologna.

Si risponde sempre ad una domanda. Ma se la domanda è mal posta rischia di esserlo anche la risposta. Quel quesito era oggettivamente fuorviante, tanti se lo sono ritrovati davanti in cabina non senza un’impressione di imbarazzo.

Sappiamo che la crisi produce un’attesa sociale di servizi pubblici, non solo in campo educativo, ma in tutti i campi. La sfida dei sistemi integrati deve confrontarsi con questa attesa e occorre trovare un equilibrio che metta al centro la domanda sociale, la qualità del servizio, la tutela dei diritti dei cittadini, soprattutto minori, come il Comune di Bologna sta facendo.

 

Raffaele sabato scorso, nella sua relazione, ha detto una cosa che voglio riprendere: occorre “rappresentare al meglio tutti i ceti produttivi di questo Paese e tessere con loro un’alleanza progettuale sul lavoro”.

Poi ha descritto la situazione drammatica prodotta dalla crisi, anche nel nostro territorio – perché il nostro territorio  non ne è esente – proponendo sette gruppi di lavoro.

Partendo dalle risorse rivolte dai Comuni agli investimenti in riferimento al patto di stabilità e all’esigenza di una sua rivisitazione.Sino all’internazionalizzazione delle imprese, alla politica industriale, alla rinascita del settore manifatturiero, al centro del Piano Strategico Metropolitano.

Sino alla semplificazione amministrativa, in prospettiva di una Città Metropolitana del cui statuto si comincerà a discutere dal primogennaio 2014, ma anche in rapporto alle gestioni associate dei Comuni, “senza forzature ma senza nemmeno rinunciare a tracciare un progetto partecipato per il governo del territorio”. E poi alcuni settori innovativi, dal turismo al patrimonio ambientale, storico, artistico, culturale. Dal risparmio energetico alla lotta alle infiltrazioni della criminalità organizzata.

Nello stesso tempo ha proposto di strutturare un coordinamento permanente fra gli amministratori del Comune di Bologna, della Provincia, della Regione, con i parlamentari e i sindaci, per la definizione delle priorità di sviluppo e di coesione sociale dell’area metropolitana bolognese.

 

Qui è una forte scommessa, politica e programmatica.

Vengo al congresso, con tre rapide osservazioni. La prima. Si parla molto, forse troppo, di gruppi dirigenti. Una cosa importante, ma prima vi sono altre priorità. Il progetto del Pd deve assumere una dimensione più orizzontale.

Per esempio: quale futuro per i circoli? Che ne sarà dei forum? Come suscitare slanci, energie, a partire non dal vertice, ma dal movimento di base, nel punto in cui la società s’incontra con la politica e la politica deve aprirsi alla società?

La seconda. L’aggettivo democratico, oggi, conta tanto quanto il sostantivo partito, se non di più: dobbiamo essere garanti, a tutti i livelli, di una stagione in cui la gente senta in noi non qualcosa di prestabilito da decenni, ma un’istanza, vera, disinteressata, di promozione dal basso alla politica. Cercando di trasmettere le nostre convinzioni, ma anche la nostra unità nel perseguirle.

La terza, come ci siamo detti sabato scorso: ripartire dalle comunità locali.

Il riavvio non è in un soggetto semplicemente radicato nei territori, ma nei territori perché possano assumere un maggiore profilo politico.

Relativamente al congresso è fondamentale il “quando”. Ogni dilazione rischia di essere vissuta come un modo per evitare un confronto che non è più rinviabile. Per certi versi il congresso è già iniziato. La discussione di sabato è un modo per entrarci dentro.

Ma c’è anche un tema sul “come”, cioè sul fatto che questo congresso deve essere una cosa molto seria.

Ovviamente non possiamo fare da soli, in questo senso la proposta di mozione presentata a questa Direzione forse andrebbe meglio precisata. Un conto è non rinviare una discussione congressuale già in atto; un conto è chiedere al segretario e all’esecutivo provinciali di procedere alla convocazione di un congresso che non dipende solo da questi organismi.

Sono completamente d’accordo che dobbiamo tenere da parte la logica dei nomi propri di persona. A tutti i livelli.

E’ bene che entro l’anno si possano svolgere tutti i congressi, nazionale, regionale, provinciale e di circolo. Cominciando possibilmente dal basso, dal piano locale e provinciale. Se vogliamo ripartire dai territori, dobbiamo essere conseguenti.

C’è una comunità da rispettare, un progetto da ricostruire. Non dipende solo da noi, ma anche da noi. Cerchiamo di evitare che il congresso sia un’altra occasione mancata.

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