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Matteo Sgorbati: Dall’oracolo all’inconscio e ritorno. Una riflessione sulle vie moderne al Classico dei Mutamenti

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)

Matteo Sgorbati: Dall’oracolo all’inconscio e ritorno. Una riflessione sulle vie moderne al Classico dei mutamenti

| 15 Luglio 2025 | Comments (0)

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Matteo Sgorbati

Dall’oracolo all’inconscio e ritorno: una riflessione sulle vie moderne al Classico dei mutamenti 

In ricordo di Vittorio Capecchi

 

Il classico ritrovato

La vicenda del Classico dei mutamenti (Yijing 易經) – un antico manuale cinese di divinazione e cosmologia comunemente noto come “I Ching” – nella Cina del ventesimo secolo e oltre è tanto sorprendente quanto emblematica delle vie della modernità. Entrato nel Novecento come residuo “confuciano” del morente sistema imperiale, considerato da molti superfluo se non addirittura d’ostacolo alla modernizzazione della Cina, questo classico ne uscì sorprendentemente trionfante, tornando alla ribalta come simbolo della perenne attualità ed eccezionalità dell’eredità culturale cinese. Come si è prodotta questa situazione?

Un primo indizio viene dalla natura stratificata del testo, composto nel corso di oltre un millennio ed espressione di molteplici voci: da quelle di una civiltà dell’età del bronzo che ignorava la navigazione, fino ai discorsi daoisti, confuciani e cosmologici del periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) e Han (206 a.C.-220 d.C.). Questa profondità storica e concettuale rende il testo aperto a molteplici usi e interpretazioni. Come indicato sapientemente da Amina Crisma e Vittorio Capecchi (“Prefazione”, in Matteo Sgorbati, L’I Ching a Eranos, Orientexpress, 2021), proprio per questa sua versatilità il Classico dei mutamenti ha svolto per secoli il ruolo di “Grande Codice”, continuando ancora oggi a ispirare pensatori cinesi e della diaspora nella ricerca di un ponte creativo tra passato e presente, tra pensiero europeo e quello cinese.

In un’epoca dominata da un ethos rivoluzionario e mentre il Movimento del Quattro Maggio (1919) invitava le nuove generazioni a rompere con il passato per abbracciare i nuovi valori della scienza, del progresso e della razionalità, divinazione e pensiero cosmologico divennero l’emblema della superstizione e arretratezza del Paese. Eppure, proprio nel momento in cui l’autorevolezza del Classico dei mutamenti veniva messa in discussione dagli intellettuali cinesi delle grandi città, il testo fu “scoperto” dallo psichiatra Carl Gustav Jung. Nei suoi ritiri solitari sulle rive del Lago di Zurigo, in una casa volutamente priva di elettricità e acqua corrente, Jung si avvicinò alla divinazione cinese in cerca di conferme transculturali al proprio metodo analitico. In seguito, si servì dell’I Ching in ambito clinico per l’esplorazione dell’inconscio e il trattamento di uno dei disturbi più diffusi della modernità: la nevrosi.

A poco a poco, uno dei testi più influenti e frequentati della storia cinese venne “conquistato” — per riprendere una celebre espressione freudiana — da una disciplina scientifica relativamente nuova: la psicologia. Inserito in un contesto del tutto inedito, quello clinico, il Classico dei mutamenti fu reinterpretato alla luce delle pratiche psicoterapeutiche moderne. Secondo Geoffrey Redmond e Tze-ki Hon (Teaching the I Ching, Oxford University Press, 2014), l’I Ching che Jung contribuì a popolarizzare costituirebbe addirittura un’opera distinta rispetto all’Yijing di partenza.

Benché la loro analisi metta in luce i limiti delle riletture moderne del classico, l’enfasi sulla discontinuità rischia tuttavia di oscurare i possibili elementi di continuità (reali o anche solo immaginati) che ne hanno favorito la ricezione in epoche e contesti diversi. Dopo aver raggiunto diversi Paesi europei e gran parte del Nord e Sud America, a partire dagli anni Ottanta l’interpretazione junghiana dell’I Ching iniziò a diffondersi anche in Cina, trovando accoglienza nel clima postmaoista di aperture. Da un lato entrò in risonanza con il rinnovato interesse per l’opera noto come la “febbre del Classico dei mutamenti” (Yijing re 易經熱); dall’altro diede un impulso significativo allo sviluppo della psicoterapia cinese.

Di fronte a questo quadro, sorge la questione del significato storico e delle implicazioni pratiche della rilettura psicologica del classico. Restringendo ulteriormente il campo, possiamo formulare la seguente domanda: gli usi psicoterapeutici di questo antico manuale divinatorio nella Cina contemporanea rappresentano una sorta di tradizione alterata frutto dell’innesto di idee moderne e percepite come straniere in un contesto storico-culturale-linguistico ridotto a mero sfondo, oppure un espediente per rilanciare e legittimare pratiche antiche in chiave moderna? Per rispondere a tale domanda occorre anzitutto prestare attenzione alle dinamiche globali qui coinvolte.

Il concetto di “globalizzazione di ritorno” (return globalization) proposto dall’antropologa Kathinka Frøystad si rivela utile alla nostra indagine. Guardare alla storia di pratiche e/o idee in una prospettiva transnazionale mostra come, una volta cadute in disuso in un certo periodo, esse possano essere riscoperte e rivalutate dopo aver “maturato” nuove forme e significati all’estero. (Questa circolazione è anche nota come “effetto pizza”.) In altre parole, il trasferimento di un sapere può rafforzarne l’identità e mantenerla viva nel tempo.

Nel caso cinese, la “scoperta” della rilevanza psicologica di pratiche e saperi autoctoni si è confrontata a partire dagli anni Ottanta con una realtà profondamente segnata da decenni di rivoluzioni e riforme. La globalizzazione di ritorno, dunque, non ha rappresentato un semplice recupero in chiave scientifica di radici culturali perdute, ma un processo di adattamento transculturale che si è fatto carico dei nuovi vincoli materiali, spirituali e ideologici della società contemporanea. In tal senso, le dinamiche globali che si osservano oggi in Cina perseguono obiettivi diversi da quelli promossi in contesti europei o nordamericani, delineando una via “cinese” di accesso alla modernità.

Sulla scorta dell’interpretazione di Jung del pensiero cinese, alcuni psicoterapeuti cinesi interessati all’identità culturale della propria disciplina hanno visto nel Classico dei mutamenti una fonte autoctona per lo sviluppo della psicologia. Nel farlo, enfatizzano la nozione di xin 心, un termine chiave del pensiero cinese che indica con un’accezione ampia sia il “cuore” e la “mente” che il concetto di “centro”. Sebbene Jung abbia fatto riferimento al xin nei suoi studi sul pensiero cinese, non lo ha mai tematizzato in modo approfondito. L’esplorazione – e, per certi aspetti, la reificazione – della dimensione psicologica del xin è stata tuttavia rivendicata dai suoi “eredi” cinesi, come discusso più sotto.

L’esegesi clinica

Con l’intento di “difendere” (wei 衛) l’eredità culturale cinese, il missionario-sinologo Richard Wilhelm tradusse in tedesco il Classico dei mutamenti con l’aiuto di Lao Naixuan 勞乃宣, ex funzionario e letterato che Wilhelm elevò a maestro di una “saggezza cinese” giudicata astorica. Dal canto suo, Lao trovò in Wilhelm non solo un allievo rispettoso delle maniere confuciane, ma anche un missionario influente capace di offrire protezione alla sua persona e ai classici nel turbolento periodo postrivoluzionario.

Grazie a questo sodalizio si deve la traduzione commentata del Classico dei mutamenti pubblicata nel 1924, che fu a sua volta ritradotta in altre lingue, contribuendo alla rapida globalizzazione e popolarizzazione del classico. (Degno di nota è la citazione dell’I Ching, con la pronuncia inglesizzata in “ai ching”, nel brano God di John Lennon.) Nel 1950, uscirono sia la traduzione in inglese a opera dell’analista americana Cary Baynes che quella in italiano, curata da Bruno Veneziani. Quest’ultimo era il cognato di Italo Svevo, nonché ex paziente di Freud. Veneziani completò la traduzione su consiglio del suo nuovo analista, lo junghiano Ernst Bernhard.

La traduzione di Wilhelm fu decisiva per aprire la strada a una lettura psicologica del classico. Presentando l’opera al pubblico tedesco, Wilhelm arricchì la sua versione con commenti originali che intrecciavano interpretazioni neoconfuciane con la filosofia tedesca e nozioni moderne come l’inconscio e l’entropia. (Questi commenti inseriti all’interno del testo tradotto sono facilmente equivocabili come parti del classico stesso, circostanza già denunciata dal sinologo Alfred Forke nel 1925.) In particolare, Wilhelm interpretò la divinazione come un’attivazione dell’inconscio, richiamandosi al concetto-chiave di “consonanza simpatetica” (ganying 感應), cioè l’interazione sottile tra universo, esseri senzienti e società. In epoca imperiale, questo sistema di correlazioni fornì la base concettuale allo sviluppo dell’etichetta (li 禮), il complesso di norme e rituali che regolava la vita sociale e politica del Regno di Mezzo.

In un passo cosmologico del Classico dei mutamenti si afferma che “il Cielo e la Terra si stimolano reciprocamente, e così la miriade dei fenomeni si manifesta; i saggi stimolano il cuore degli uomini, portando armonia e pace”. Commentando questo brano, Wilhelm spiegò che la parola gan 感 (“sensazione”, “affezione”) nel binomio ganying è formata dall’aggiunta del radicale xin (reso da Wilhelm con “cuore”) al carattere xian 咸 (tradizionalmente interpretato nel senso di “stimolazione”), aggiunta che indicherebbe il ruolo dell’inconscio nella “consonanza simpatetica” tra l’essere umano e il cosmo.

Con Jung, la psicologizzazione – ovvero la lettura del testo non tanto come prodotto storico o speculativo ma in quanto “documento psicologico” – dell’I Ching inaugurata da Wilhelm assunse aspetti marcatamente clinici. Lo psichiatra svizzero, infatti, vide in questo classico non solo una conferma alla sua famosa teoria delle coincidenze significative tra psiche e materia nota come sincronicità, ma soprattutto un prezioso strumento analitico per l’attività psicoterapeutica. In particolare, Jung interpretò il processo divinatorio come un mezzo per far emergere i contenuti inconsci e moralmente inaccettabili della psiche identificati come l’“Ombra”.

In alcuni casi clinici, l’uso dell’I Ching si rivelò utile per superare resistenze razionalistiche e favorire lo sviluppo di una personalità più integrata. Proprio grazie alla sua origine premoderna – in Divinazione e sincronicità (Tlon, 2019) la junghiana Marie-Louise von Franz definì l’opera “primitiva” – il testo oracolare apriva a dimensioni della psiche divenute inaccessibili alla mentalità moderna, dominata da intellettualismo, unilateralismo e moralismo.

Tramite un laborioso processo di traduzione, esegesi, reinvenzione e psicologizzazione, il xin giocò dunque un ruolo fondamentale nel collegare il pensiero cinese alla psicologia junghiana, facendo della divinazione una porta aperta sull’inconscio. Ma mentre Jung non approfondì il xin e anzi sostenne più volte la necessità di mantenere il suo modello psicologico saldamente ancorato a quella che considerava la tradizione spirituale “occidentale”, nella Cina contemporanea questo concetto, più che quello di inconscio, è divenuto strumentale allo sviluppo della psicologia analitica.

Il cuore della psicologia cinese

Sebbene le teorie di Jung circolassero in Cina fin dagli anni Venti, fu solo durante l’era dell’apertura economica inaugurata da Deng Xiaoping nel 1978 che iniziarono a diffondersi su larga scala. A partire dalla fine degli anni Settanta, inoltre, la psicologia smise di essere vista come un prodotto dell’ideologia borghese e fu invece valorizzata dal Partito comunista cinese come strumento per costruire una Cina moderna e socialista. In questo nuovo clima, agli psicologi fu affidato il compito di sviluppare una psicologia con caratteristiche cinesi, secondo la definizione dello psicologo Pan Shu 潘菽. Riprendendo l’idea di “sinizzazione” (zhongguohua 中國化) che il giovane Pan stesso aveva già proposto negli anni Trenta, si affermò la necessità di adattare teorie e pratiche psicologiche alle specificità culturali, storiche e sociali del Paese. Allo stesso tempo, molti professionisti iniziarono una ricerca sistematica del “pensiero psicologico” (xinlixue sixiang 心理學思想) nel patrimonio filosofico e culturale cinese.

In questo contesto si inserisce il lavoro di Shen Heyong 申荷永 dell’Università di Macau, il primo psicoterapeuta di formazione junghiana in Cina e promotore di una psicologia centrata sul concetto di xin. Shen ha messo in luce l’importanza del concetto di xin – che interpreta quasi esclusivamente nel senso di “cuore” – nella lingua e cultura cinese fin dai tempi delle ossa oracolari, rivendicando per la Cina il ruolo di “terra natia” (guxiang 故鄉) della psicologia. A sostegno della sua tesi, ha sottolineato come molti caratteri cinesi che esprimono stati emotivi o mentali contengano al loro interno il componente xin, segno, secondo lui, di una radicata tradizione psicologica autoctona.

Attivo anche sul piano internazionale, Shen Heyong partecipò a numerosi convegni all’estero. Nel 1997 prese parte per la prima volta ai celebri colloqui di Eranos in Svizzera (a cui tornerà anche nel 2007 e nel 2019), dove sostenne che il Classico dei mutamenti rappresenta una delle fondamenta culturali della psicologia cinese, espressione di quella che definì “psicologia del cuore” (psychology of the heart). A suo avviso, questa tradizione psicologica fondata sul concetto di xin fu messa in ombra dall’introduzione della psicologia scientifica agli inizi del Novecento. La traduzione di “psicologia” con il neologismo xinlixue 心理學 (lett.,  “studio del principio della mente”) avrebbe infatti alterato il senso originario di xin, inteso eticamente come “cuore”, riducendolo a un’idea più astratta e funzionale di psiche. Così si esprimeva:

Non appena il termine xinlixue fu usato per tradurre la psicologia occidentale, i cinesi trovarono una nuova mente, una nuova scienza e una nuova disciplina. Questo è ciò che la psicologia è diventata oggi in Cina. Ma una volta accettato il termine, perdemmo anche il nostro cuore; il cuore perse il suo significato. Lo “studio del cuore” (xinxue 心學) cinese divenne una disciplina in stile occidentale. La relazione naturale tra cuore e psicologia nella tradizione culturale cinese si spezzò. Dunque, il mio compito qui è cercare di ritrovare il “cuore” cinese perduto e recuperarne il significato.

Da allora, Shen sostiene che la psicologia cinese dovrebbe rimettere al centro il significato profondo di xin, riattivando una tradizione incentrata sul “cuore” interrotta dall’arrivo della “psicologia occidentale”. Oltre a motivazioni legate allo sviluppo di una psicologia indigena (indigenous psychology), Shen attribuisce al quella che chiama la “psicologia del cuore” anche un valore scientifico fondamentale: mentre le scuole europee e nordamericane tenderebbero a frammentare l’essere umano in modelli astratti spesso in conflitto tra loro, la psicologia cinese fondata sul xin offre invece una visione olistica ed etica dell’essere umano, capace di integrare corpo, comportamento, emozioni, pensiero e dimensione spirituale.

Nella sua seconda conferenza a Eranos (2007), Shen Heyong approfondì il concetto di xin, distinguendone tre significati fondamentali: (1) fisiologico, in cui il cuore è visto come fonte della vita; (2) psicologico, che lo interpreta come sintesi dei processi mentali ed emotivi; e (3) metafisico, dove il cuore rappresenta la mente e il centro del Cielo e del Dao. Queste tre dimensioni del cuore legano elementi umani al non umano, fornendo la base a una psicologia che non separa mai l’individuo dalla dimensione cosmologica e relazionale-sociale — un approccio programmaticamente in contrasto con l’individualismo e il dualismo percepiti come costitutivi della tradizione psicologica “occidentale”.

L’idea di psicoterapia elaborata da Shen Heyong mette al centro una connessione essenziale tra individuo, società e sistema cosmico, un legame reso possibile attraverso il concetto di xin. La sua attività di conferenziere di successo ha fatto di lui quasi un “guru” junghiano riconosciuto anche da colleghi americani e italiani, mentre la formazione di numerosi allievi e terapeuti segna un momento chiave nello sviluppo e trasmissione di una psicologia cinese capace di integrare saperi autoctoni e modernità scientifica. In questa prospettiva, Shen e altri psicoterapeuti come Li Mengchao 李孟潮 recuperano dal Classico dei mutamenti il concetto di “purificazione del cuore” (xixin 洗心) tramite la consultazione dell’oracolo, conferendo alla psicoterapia un imprinting confuciano. Il colloquio clinico diventa così parte di un più ampio cammino etico, volto alla crescita personale tramite la ricerca dell’armonia nelle relazioni con la società e il mondo.

Conclusioni: prescrivere la tradizione

Lo sviluppo della psicologia analitica in Cina si intreccia profondamente con la storia moderna del Paese e con la ricerca di una propria identità. Secondo la psicoterapeuta di Hong Kong Shirley See Yan Ma, autrice di Con i piedi fasciati: uno sguardo junghiano sulla cultura e la psicologia cinese (Moretti & Vitali, 2015), Jung offre non solo una chiave per esplorare il passato culturale della Cina e riscoprire antichi concetti psicologici, ma anche uno strumento per rafforzare la fiducia in sé, indispensabile tanto nella pratica clinica quanto nella vita quotidiana. La rilettura junghiana della “saggezza cinese” è oggi diventata un segno del rinnovato interesse culturalistico per la tradizione, contribuendo alla formazione di una psicologia che si vuole autenticamente cinese, fondata sul recupero e sulla reinvenzione dei significati di “xin”.

A differenza della psicologia analitica di stampo europeo, rivolta come abbiamo visto all’accettazione dell’Ombra come via allo sviluppo autentico dell’individuo, la psicologia analitica cinese invece mette al centro la coltivazione della virtù e la socializzazione dell’individuo. Enfatizzando la dimensione etica e cosmologica, gli psicologi cinesi propongono un modello alternativo e in competizione con la psicoterapia nostrana, fondato sulla nozione di xin e sulla sua purificazione. Lo scopo ultimo è quello di rivendicare la centralità di pratiche e saperi precedenti alla nascita della psicologia scientifica in Europa, proponendo alla Cina – e in proiezione futura al resto del mondo – un approccio moderno al Classico dei mutamenti con caratteristiche cinese. Un approccio, in breve, in cui le logiche della sinizzazione e quelle della psicologizzazione procedono di pari passo e si alimentano a vicenda.


Matteo Sgorbati ha conseguito un dottorato in cotutela in Antropologia e Lingue e culture orientali presso l’Università degli Studi di Perugia e l’Università di Ghent. I suoi interessi di ricerca vertono sui rapporti tra buddhismo cinese e psicologia moderna, a cui si aggiunge recentemente lo studio della storia culturale della psicologia in Cina. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo la monografia L’I Ching a Eranos: Wilhelm, Jung e la ricezione del Classico dei mutamenti (Napoli, 2021), l’articolo “‘Cleansing the Heart’ in Contemporary China” (2025) e il capitolo “The Unconscious and its Buddhist Interpreters in Early Twentieth-century China” (Peeters Publisher, in corso di stampa). Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Istituto di storia e filologia dell’Academia Sinica.

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