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Ignazio De Francesco: Pensare (e raccontare) la storia palestinese dall’interno. Il caso di Maher Sharif

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it )

Ignazio De Francesco: Pensare (e raccontare) la storia palestinese dall’interno. Il caso di Maher Charif

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Pensare (e raccontare) la storia palestinese dall’interno.

Il caso di Maher Charif

di Ignazio De Francesco

Un intellettuale palestinese di fronte alla propria storia

«Solo l’Occidente conosce la Storia». L’affermazione apodittica, perentoria, irrompe a p. 68 delle Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo d’istruzione 2025. Qualche riga sotto, gli specialisti del Ministero dell’Istruzione e del Merito la spiegano nel modo seguente: «La Storia, come da oltre due millenni l’Occidente l’intende, non consiste nella raccolta dei fatti e nel metterli in ordine cronologico. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo: la Storia consiste nel pensare i fatti». Se le cose stanno proprio così, mi sembra esattamente quanto Maher Charif fa da oltre quarant’anni. Di questo storico palestinese ho curato l’edizione italiana di tre sue opere, nate in arabo: La storia del pensiero politico palestinese (Zikkaron 2018); I nodi irrisolti del pensiero arabo (Punto Rosso 2022); Palestinesi, storia di un popolo e dei suoi movimenti nazionali (Carocci 2025), quest’ultimo scritto in collaborazione con Issam Nassar.

Nato a Damasco (1950) da famiglia di rifugiati palestinesi della zona di Jaffa, Maher Charif ha conseguito nel 1982 il dottorato in scienze umane all’università Sorbona di Parigi, con una tesi sulla storia del Partito Comunista Palestinese (PCP). Per rintracciare le origini più remote di questo partito bisogna risalire al 1922, quando in Palestina nasce un Partito Comunista che segue la fondazione, su iniziativa di immigrati ebrei di fede socialista, del Partito dei lavoratori (1919). Dopo il 1948, gran parte dei comunisti palestinesi confluirà nel Partito Comunista Giordano e darà poi vita (1982) al Partito Comunista Palestinese, dal 1990 Partito del Popolo Palestinese. Membro del PCP, Maher Charif ha fatto parte anche del gruppo interno riformatore che ha fondato il PPP. Il suo percorso intellettuale e accademico inizia con l’esperienza di ricercatore presso il Centro ricerche e studi socialisti nel mondo arabo, a Damasco (1983-1989), cui segue la direzione della rivista Sawt al-watan (la voce della nazione) a Nicosia, Cipro (1989-1993); la docenza di storia moderna e contemporanea all’Institut français du Proche-Orient (IFPO) nelle sedi di Damasco e Beirut (1993-2012), dove prosegue contemporaneamente la sua attività di ricercatore; alcuni incarichi di insegnamento come “visiting professor” in istituti universitari a Parigi, Beirut e Birzeit (2005-2016). Per quanto riguarda la sua attività editoriale, a parte gli articoli redatti per numerose riviste scientifiche e la cura di voci enciclopediche, dal 1985 ad oggi ha all’attivo, come autore/curatore, più di 25 opere. Tra i riconoscimenti per la sua attività intellettuale e il suo impegno civile c’è il “Premio Mahmoud Darwish per la libertà e la creatività”, ricevuto nel 2017, nonché il “Premio Stato di Palestina nel campo delle scienze umane e sociali”, conferitogli nel 2020.

Intellettuale laico impegnato sul doppio fronte del riformismo religioso arabo e della questione palestinese, Charif non ha mai temuto i rischi connessi a un approccio strettamente scientifico al minuzioso lavoro di ricostruzione della storia del pensiero politico palestinese, dai suoi primissimi esordi sino a oggi, vale a dire il travaglio di un piccolissimo popolo di origini largamente contadine, sconosciuto al punto che si poté dare persino il tentativo ideologico/propagandistico di negarne l’ esistenza. Posto di fronte a eventi e potenze che lo hanno costantemente soverchiato, esso ha dovuto forgiarsi quasi ex nihilo gli strumenti d’interazione con questa realtà eccedente, dando così vita a una vera e propria officina del pensiero arabo. Nel trattare questa materia non ha esitato a gettare luce anche sulle insufficienze, i ritardi, le contraddizioni interne al “palestinismo” del quale anch’egli è figlio, rinunciando alla scorciatoia troppo facile, troppo battuta, di farne ricadere le cause sempre e solo sull’Altro.

Storia completa dunque, non per frammenti e non solo degli eventi, ma del pensiero, seguendo passo dopo passo l’evoluzione prodottasi su quattro grandi sfide: appartenenza e distinzione dal mondo arabo circostante; scelta tra contro oppure accanto agli ebrei; definizione del proprio destino sul più vasto scacchiere internazionale e in particolare accanto agli altri popoli diseredati; invenzione ex novo di una società attraversata da forti tensioni tra democrazia e autoritarismo, nazionalismo laico e religioso, palestinesi dei Territori, di Israele e della diaspora. Livelli di complessità di un progetto che non è nato “finito” o a quell’alto grado di definizione che caratterizzò, fin dal tempo di un Moses Hess o di un Theodor Herzl, il progetto sionista, ma che è stato segnato, sino ad oggi, da notevole fluidità.

I primi passi

Malgrado che nel suo ultimo libro la storia palestinese venga ricostruita a partire dal periodo ottomano, gettando quindi luce su un periodo pressoché sconosciuto ai non addetti ai lavori, Charif non esita a riconoscere che fu il contatto diretto con il colono sionista in Palestina a generare una coscienza palestinese germinale, perfezionatasi e incarnatasi in un movimento nazionale solo all’inizio degli anni ’20, quando il colonialismo occidentale intraprese l’occupazione del Medio Oriente e del Nord Africa, impedendo la realizzazione dell’aspirazione pan-araba a uno stato arabo unitario. Così come afferma a chiare lettere che, diversamente dai movimenti nazionali circostanti, i quali iniziarono molto precocemente a pensarsi su fette di territorio ritagliate dalla grande torta del Medio Oriente, il nazionalismo palestinese rimase per molti decenni in attesa di un’indipendenza dal colonialismo nel quadro della propria unione con la Siria. Orientamento che indubbiamente indeboliva la coscienza nazionale particolare di questo popolo e che apriva la porta alla tutela spesso paralizzante dei vicini arabi, anche a causa della repulsione provata dai palestinesi di fronte a qualsiasi forma di autogoverno proposta, pur senza troppo entusiasmo, dalla potenza mandataria, la Gran Bretagna. Accettare il principio dell’autogoverno, che fu poi il massimo risultato tangibile strappato oltre mezzo secolo dopo con gli accordi di Oslo, avrebbe infatti significato accogliere l’idea di una coabitazione al potere con quell’Altro che il nazionalismo palestinese allora rifiutava recisamente di riconoscere.

I comunisti palestinesi rappresentano, in questo quadro, l’unica eccezione, gli unici che si pronunciarono a favore del progetto di partizione, ritenendo che una piccola terra come la Palestina avrebbe potuto essere patria comune di due piccoli popoli oppressi dai giochi del colonialismo occidentale, il quale in realtà non vuole la mutua comprensione tra arabi ma mira a trasformare gli stati arabi e lo stato ebraico in stati polizieschi e militaristi, onde assecondare i propri piani di dominio dell’area. Non a caso, il primo ponte di dialogo tra le due parti fu lanciato proprio dagli attivisti operanti sulle due sponde del marxismo ebraico-palestinese.

Dalla catastrofe alla ricaduta

Nakba è la parola araba usata per definire gli eventi del 1948, la «catastrofe» che si produsse con la nascita dello stato di Israele e lo sradicamento di centinaia di migliaia di singoli e famiglie, fuggiti o messi in fuga dalle loro terre e proprietà. Ad essa corrisponde naksa, «ricaduta», termine che battezzò la disfatta subita, poco meno di venti anni dopo, nella guerra dei Sei Giorni. La nakba parve sommergere, insieme ai villaggi e ai poderi della Galilea, anche la coscienza politica particolare dei palestinesi, il cui nazionalismo perse di visibilità, venendo risucchiato completamente nell’alveo di quello arabo: sarebbe dovuta partire dall’unità araba la riscossa per la liquidazione dell’“entità aliena”, al grido «la hudud wa la yahud», cioè nessun confine e nessun ebreo. Ma anni preziosi trascorsero infruttuosamente e furono proprio i tentennamenti e le contese interne a quella dirigenza araba alla quale erano appesi in larga parte i sogni del pan-arabismo, unitamente a eventi galvanizzanti quali il successo tutto autoctono dell’insurrezione algerina, l’elemento stimolante il riemergere del carattere peculiarmente palestinese del destino della riva occidentale del Giordano.

È dunque all’interno della dialettica tra tutti questi elementi che va interpretato, secondo Charif, l’evento della nascita di un’organizzazione regionale palestinese di nuovo tipo, Fatah  (sigla che letta al contrario significa Movimento di Liberazione della Palestina), portatrice del progetto di un’entità rivoluzionaria, non soggetta e non seguace di alcun sistema arabo, la quale avrebbe esercitato la propria sovranità sulla parte araba residua della Palestina, facendone la base di appoggio per proseguire la rivolta armata in direzione della liberazione dell’intero paese. L’evento celava tuttavia due livelli di ambiguità: il primo, tutto interno alle premesse ideologiche del movimento fondato da Yasser Arafat, giaceva nell’opposizione nutrita nei confronti della dilatazione pluralista dell’universo politico palestinese. Il discorso fatto era semplice e, a suo modo, logico: i partiti non servono, giacché qui non è in questione la liberazione di una classe da un’altra, ma la liberazione della terra e di un intero popolo, senza distinzioni di classe. Il gioco democratico sarà pienamente ripristinato una volta raggiunto l’obiettivo, ma ora esso non può che frammentare e indebolire le forze. Non è difficile immaginare come un simile approccio, che chiamava alla militanza in un movimento «al di sopra del partitismo, delle simpatie, delle inclinazioni, al fine di includere tutto il popolo», potesse sviluppare anche germi di una concezione autoritaria del potere. Proprio l’esperienza dell’autogoverno avviata dopo gli accordi di Oslo, con il manifestarsi di fenomeni particolarmente preoccupanti di accentramento e occupazione del Palazzo, avrebbe confermato quanto questi timori fossero fondati.

La seconda ambiguità, esterna, riguardava invece il rapporto difficile con quella funzione di tutela che le potenze arabe dell’area si sentivano di dover continuare ad esercitare con vigore: se esse dicevano sì all’emergere di una entità palestinese – alla fondazione della quale iniziò a dedicarsi l’OLP dal 1964 – continuavano a imporre che non si parlasse di sovranità per questa entità, per non provocare incrinature tra pan-arabismo e palestinismo. Meglio non sognare neppure, ammonivano, che siano quelle bande di fedayin armati e addestrati sommariamente a promuovere una guerra popolare di logoramento dell’avversario e a mobilitare infine le masse arabe nell’insurrezione che avrebbe portato al collasso della “entità sionista”, come Israele veniva definito, e alla fuga precipitosa dei suoi coloni, giacché senza gli eserciti arabi il sogno non potrebbe mai tradursi in realtà.

Mitra e/o politica?

La disfatta degli eserciti arabi nella guerra del giugno 1967 e la moltiplicazione per quattro dell’area di territorio controllata da Israele, fu per tutti un brusco risveglio dai sogni. A livello dei rapporti con l’Altro ci si dovette rendere conto, una volta per tutte, dell’impossibilità di far evacuare dalla Palestina i coloni ebrei “non originari”, verità che fece teorizzare, per la prima volta, la disponibilità a convivere con gli ebrei in uno stato democratico palestinese, nel quale tutti i cittadini avrebbero avuto i medesimi diritti e doveri, una volta compiuta la “liberazione” degli ebrei stessi dal sionismo. Questa prima apertura risentiva in realtà, secondo l’analisi di Maher Charif, di una valutazione delle cose incapace di afferrare la natura del sionismo e di una riflessione semplicistica sul modo di separare questo Altro dall’ideologia che gli aveva aperto le porte della Palestina.

A livello delle dinamiche interne, il fallimento della strategia della guerra tradizionale aveva portato i fedayin sulla cresta dell’onda: le formazioni della guerriglia arruolavano ora migliaia di effettivi e, cosa ancora più importante, potevano aspirare a proporsi sulla scena internazionale quali rappresentanti legittimi del popolo palestinese. All’interno di questa dinamica è notevole il farsi largo di formazioni come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina del cristiano George Habash, le quali collegavano la questione palestinese ad altre avventure rivoluzionarie del tempo, come la rivolta cubana e l’insurrezione vietnamita, e traevano ispirazione dagli scritti di Mao e del generale Giap per sostenere che il nemico aveva una statura globale – rappresentata dall’asse imperialista-sionista – e doveva essere dunque colpito ovunque si trovasse. All’esterno veniva dunque proposta una guerriglia senza confini; all’interno gli orientamenti territorialisti e anticlassisti di Fatah erano bollati come espressione di un’ideologia destrorsa, che cerca di cancellare la teoria di classe per consentire alla borghesia palestinese di infiltrarsi nei centri di comando e far fallire la rivoluzione.

Altri due fattori di instabilità si annidavano nel quadro appena ricomposto: il primo derivava dall’egemonia goduta in quel momento dalla lotta armata, la quale portò a sintetizzare il contenuto della rivolta nell’uso del mitra, dal quale fare sgorgare l’attività politica e mediante il quale costruire l’unità nazionale. L’obiettivo della custodia del mitra si trasformò precocemente in un motivo di apprensione, specialmente quando sull’orizzonte balenava come un miraggio la possibilità di pervenire a un qualche compromesso politico. Il secondo, strettamente legato al primo, consisteva nell’elaborazione del concetto di «base sicura», cioè quella zona protetta che doveva servire come rampa di lancio della lotta armata, ancora a imitazione di altre esperienze rivoluzionarie correnti. Le terre a Oriente del Giordano erano state scelte per essere questa base sicura, «la piccola Hanoi» o «l’Hanoi degli arabi», come fu detto, ma senza tener nel dovuto conto che esse appartenevano a un’entità araba custode della propria sicurezza nazionale e non disposta a sacrificare la propria integrità a favore del concetto di “sicurezza pan-araba”, per il quale non si dà sicurezza parziale per alcun singolo stato sino a quando l’insieme del mondo arabo si trovi sotto la minaccia di Israele.

Scoperta graduale dell’Altro

L’uscita traumatica dell’OLP dalla Giordania, dopo gli eventi sanguinosi del “settembre nero” 1970, portarono questi due nodi al pettine e al tempo stesso aprirono una nuova fase di riflessione. Si trattava anzitutto di tornare all’azione politica e a un coinvolgimento più ampio delle masse, cessando di vedere nella lotta armata la strada unica per la liberazione. In secondo luogo, si cristallizzava la presa di distanza dalla Giordania: se qualcuno poteva ancora sperare di recuperarla come «base sicura», in realtà era ormai consolidata l’opposizione al progetto di un’unione dei due territori sotto una “monarchia araba unitaria”. In terzo luogo – fatto ancora più rilevante – si fece largo la novità di un programma graduale, per fasi, rinunciando cioè all’obiettivo primitivo di una liberazione immediata e totale della Palestina: dalla politica del “tutto o niente” si passava a quella mirante alla creazione di una “autorità nazionale” su qualsiasi lembo di terra palestinese dal quale Israele si fosse ritirato.

Veniva inaugurata con ciò una fase nuova nella coscienza identitaria palestinese, alla quale contribuivano fattori quali la percezione ormai consolidata del carattere limitato dell’impatto militare arabo (anche dopo il “mezzo successo” nella guerra dell’ottobre 1973), il riconoscimento ottenuto dall’OLP quale rappresentante unico del popolo palestinese, i contatti tessuti a livello internazionale, in particolare con l’Unione Sovietica, e il balenare per la prima volta della possibilità di utilizzare l’arma petrolifera a vantaggio della questione palestinese. Malgrado le solenni assicurazioni date sul permanere della natura intrinsecamente combattente di questa autorità nazionale e sul fatto che essa si sarebbe servita della pur piccola porzione di terra riconquistata come nuova «base sicura» di attacco del nemico, la vera sostanza della svolta non sfuggì a quelle componenti dell’estrema sinistra che bollarono il progetto come un complotto americano mirante a liquidare l’esperienza della lotta armata e a impedire alla rivolta di conseguire i suoi obiettivi strategici originari.

Gli anni che conducono dalla guerra di Yom Kippur (1973) alla prima intifada, la rivolta popolare scoppiata a Gaza e propagatasi negli altri territori occupati alla fine del 1987, sono dunque, nella ricostruzione di Charif, segnati dalla definizione travagliata del nuovo scenario, che apriva concretamente la strada a un futuro di convivenza con gli israeliani: accettazione delle decisioni ONU riguardanti la spartizione della Palestina; sostituzione della più vaga formula “autorità nazionale” con quella di “stato palestinese autonomo”, omettendo la menzione dell’antico obiettivo strategico (liberazione dell’intera Palestina); disponibilità a trattare in sede internazionale – anche in tandem con la Giordania – con Israele, nella sua porzione più democratica e progressista. L’intifada popolare del 1987 diede la spallata decisiva, spostando il baricentro dell’elaborazione politica dall’esterno all’interno della Palestina e portando infine a consacrare il principio “due stati per due popoli” e il riconoscimento del diritto di Israele di esistere. La “Dichiarazione dei principi” del 19 agosto 1993 e lo scambio delle “lettere di riconoscimento”, datate al successivo 9 settembre, avrebbero apposto il sigillo internazionale all’evoluzione già compiutasi nel Consiglio Nazionale palestinese del novembre 1988.

Sul fronte arabo si era nel frattempo consumato il divorzio dalla Giordania, che seguiva di venti anni quello dall’Egitto, maturato in seguito agli accordi di Camp David del 1978: «È ormai chiaro l’orientamento palestinese e arabo convinto della necessità di far emergere in modo completo l’identità palestinese, in tutto ciò che riguarda tale questione». Parole da incidere nel piombo, quelle pronunciate da re Husayn in occasione dell’annuncio (luglio 1988) del disimpegno giordano, a chiusura del lungo capitolo della tutela diretta dei vicini arabi sul destino palestinese. L’isolamento patito a causa del sostegno prestato – con la sola eccezione di Hamas – alla tragica avventura irakena nel Kuwait del 1990, sarebbe paradossalmente servito a sottolineare l’inizio di una fase nuova nei rapporti intra-arabi.

Esplosione dell’elemento religioso

Se gli anni che portano agli accordi di Oslo del 1993, alla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhaq Rabin sotto l’incombente sorriso di Bill Clinton, segnano il passaggio dalla logica della “giustizia assoluta” a quella della “giustizia storicamente possibile”, il fatto veramente nuovo, in totale controtendenza, è l’imporsi sulla scena del fronte religioso, che diviene la nuova punta di lancia del blocco del rifiuto, sostituendosi al ruolo precedentemente giocato dalle formazioni dell’estrema sinistra. L’emergere recente della componente religiosa ha in realtà radici lontane, collegate ai primi pronunciamenti di Hasan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, sulla questione palestinese. Fin dall’inizio i Fratelli Musulmani avevano legato strettamente l’ebraismo, in quanto religione, al sionismo, in quanto progetto politico, e si erano opposti in modo reciso a qualsiasi progetto di partizione, nel quale leggevano il complotto ordito «tra i crociati cristiani e il sionismo mondiale». Questo approccio finiva per travolgere – come si può ben vedere negli scritti dello shaykh Taqiy al-Din al-Nabhani, fondatore nel 1953 a Gerusalemme del Partito Islamico di Liberazione, antesignano di Hamas – gli stessi sistemi partoriti dal nazionalismo arabo e le loro guide, considerati in definitiva un prodotto di quel mondo, che svendeva la Palestina agli ebrei.

Si tratta dunque di una corrente che scorreva da lungo tempo in zone profonde della coscienza del popolo: essa aveva precocemente chiamato i musulmani alla fondazione di uno stato islamico nell’area mediorientale, il quale avrebbe dovuto essere faro dei fedeli e punto di raccolta delle forze, e aveva indicato come indispensabile una radicale riforma dei costumi, in senso islamico. La sconfitta nella guerra dei Sei Giorni fu così attribuita, con limpida semplicità, al divorzio tra arabi e shariʿa islamica; i nazionalisti laici vennero inoltre accusati di avere rinchiuso la questione palestinese nel solo perimetro arabo, recidendola dal mondo islamico. Manifestatasi in modo più netto nel 1982, in occasione dell’intervento armato israeliano in Libano e della conseguente fuoriuscita delle forze palestinesi dalla loro seconda e ultima «base sicura», la piena maturazione di questa corrente sarebbe avvenuta con la prima intifada e la nascita, dal grembo dei Fratelli Musulmani, di Hamas (sigla che vuol dire Movimento Islamico di Resistenza), forza impegnata dapprima in operazioni di resistenza civile, come il boicottaggio delle merci israeliane, e poi sempre più coinvolta in azioni militari di guerriglia, attraverso le formazioni ʿIzz al-Din al-Qassam. Prima la minimizzazione del fenomeno, poi il crescente timore serpeggiante tra gli esponenti delle varie anime del nazionalismo laico palestinese non poterono nulla contro l’ascesa prepotente di Hamas, che rivendicava tra l’altro l’applicazione esatta delle regole democratiche in fatto di rappresentatività, ben sapendo che il principio “i voti si contano e non si pesano” gli avrebbe messo in mano le chiavi del potere.

Quanto ai contenuti del discorso politico di Hamas, esso era nella sostanza quello delineato dai padri del fondamentalismo islamico oltre mezzo secolo prima: dal confine con il Libano a quello con l’Egitto, dal mar Mediterraneo al fiume Giordano, l’intera Palestina è un Waqf, vale a dire una proprietà religiosa, inalienabile sino al giorno del Giudizio; i musulmani dovranno rendere conto all’Altissimo della sua fedele custodia. La lezione che Charif trae dall’emergere del “palestinismo religioso fondamentalista” è che l’evoluzione faticosa, ma reale, prodottasi nel campo palestinese non riuscì mai a generare mutamenti autenticamente sostanziali nella posizione di ostilità dell’Altro, a conferma del fatto che le ragioni del rifiuto sionista della “verità palestinese” sono più tenacemente radicate di quelle del rifiuto palestinese della “verità sionista” e alimentano, per forza di cose, un rifiuto analogo, anch’esso “nel nome di Dio”.

 

La tragedia di Gaza e il futuro di un popolo

            L’originale arabo di Palestinesi, storia di un popolo era uscito nel 2019, dunque quattro anni prima della deflagrazione di Gaza. Charif concludeva il suo lavoro con un riconoscimento al significato della cultura palestinese come strumento di resilienza, di speranza contro ogni speranza: «Gli scrittori e gli artisti palestinesi hanno prodotto una ricca cultura, che insegna a non arrendersi di fronte all’oppressione, nonostante lo squilibrio di forze. Essi prodigano sforzi enormi per proteggere l’identità nazionale palestinese e per impedire la marginalizzazione della narrazione storica del popolo, specialmente in relazione ai profughi, che rappresentano la stragrande maggioranza dei palestinesi e che il ritorno in patria è il progetto al quale hanno diritto». Con queste parole terminava l’originale arabo. Per l’edizione italiana gli ho chiesto di scrivere un’appendice dal titolo Quale futuro dopo il 7 ottobre? Ne riporto le righe iniziali, che condensano tutto il pensiero dell’Autore: «La storia del conflitto israelo-palestinese non è iniziata il 7 ottobre 2023. Piuttosto, quel giorno sanguinoso, che ha visto l’uccisione di circa 1.200 israeliani, la maggior parte dei quali civili, il sequestro di altri circa 250 trasferiti nella Striscia di Gaza, e l’uccisione di un numero ancora imprecisato di palestinesi, è stata solo una tappa sulla strada di un conflitto che continua da più di un secolo. Non c’è dubbio, tuttavia, che i risultati dello scontro in corso oggi nella Striscia di Gaza determineranno il futuro della questione palestinese: metterà finalmente il popolo palestinese sulla via della liberazione, oppure porterà ad una nuova Nakba?».

La domanda mi riporta a un lontano dialogo con lui, un pomeriggio di novembre, nel suo studiolo ingombro di libri, in un quartiere di Damasco un tempo fitto di giardini orientali, quasi sulle sponde del fiume Barada, quando gli domandai a bruciapelo come avrebbe sintetizzato in una frase l’intera vicenda palestinese. Rispose senza esitare: «Al-intiqal min karitha ila ukhra», vale a dire «il passaggio da un disastro all’altro». Subito dopo, però, aggiunse: «Malgrado ciò il nostro popolo non se n’è andato, è rimasto sulla terra e anzi demograficamente cresce più degli israeliani. Questa è forse l’unica cosa concreta che dice che la nostra storia là non è finita». Il ventennio successivo a quel dialogo ha drammaticamente confermato la prima parte della risposta. Quanto alla seconda parte, c’è da chiedersi seriamente se non rischi di essere smentita dagli eventi di cui siamo testimoni diretti: ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania non mette forse a repentaglio l’esistenza stessa del popolo palestinese?

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