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Lavorare è una parola

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Con l’autorizzazione del curatore di questo libro che esce in libreria oggi pubblichiamo integralmente  la prefazione di Enrico Letta.

PREFAZIONE LAVORARE E’ UNA PAROLA

di Enrico Letta

La crisi che stiamo vivendo avrà un impatto enorme sul mondo del lavoro. Sarà una crisi che accelererà a una velocità vertiginosa le trasformazioni, soprattutto legate ai fenomeni di digitalizzazione, che già erano in corso. E soprattutto sarà una crisi che aumenterà le disuguaglianze. È vero infatti proprio l’esatto opposto del sentimento intuitivo che ha accompagnato l’arrivo del virus, l’idea cioè che si trattasse della famosa livella che mette tutti sullo stesso piano. In verità si è capito presto che non è così. Anzi. Proprio la lotta alle disuguaglianze dovrà essere la stella polare. Ecco perché sarà su una nuova centralità dei concetti di “lavoro” e di “sociale” che si dovrà ricostruire.

Il lavoro – cuore dell’azione umana ed elemento fondante della dignità della persona – è davvero sottoposto a una rivoluzione, profonda e senza sosta. Qualcosa di simile era successo al tempo delle due rivoluzioni industriali dei secoli scorsi, ma in entrambi i casi le trasformazioni nei processi produttivi si erano tradotte nella migrazione della forza lavoro da un settore all’altro: dall’agricoltura all’industria, dall’industria ai servizi. Oggi tutto è più rapido e pervasivo e per la prima volta nella storia si paventa, sia pure su un orizzonte medio-lungo, il predominio delle macchine su ciò che rende un uomo tale: la sua intelligenza, la sua creatività, la sua unicità.

L’impatto di questa rivoluzione di certo ha già cambiato, e radicalmente, i singoli lavori. Insegnare al tempo di Google, Wikipedia e dei Mooc non è più lo stesso mestiere. Esercitare una qualunque attività medica – anche in condizioni ordinarie, al di là dell’emergenza sanitaria di questo drammatico 2020 – oggi non è minimamente paragonabile a ieri. L’imprenditore e il commerciante devono riadattarsi completamente, reinventarsi, per non chiudere. E soprattutto devono farlo in fretta. L’elenco è lungo, potrebbe essere infinito: il giornalista, l’edicolante, l’editore, l’agente di viaggi, l’albergatore.

Questo ragionamento sulla rivoluzione in corso può applicarsi naturalmente anche ai lavoratori dipendenti. L’automazione spinge a una generalizzata sostituzione dell’attività umana con forme di digitalizzazione più o meno invasive. In particolare, ciò investe tutte le occupazioni che hanno a che fare con la clientela. Quante azioni svolgiamo direttamente, in quanto consumatori, durante la nostra giornata, in sostituzione di quel che un tempo era delegato a qualcun altro? Facciamo da soli ticket di viaggio, transazioni bancarie, pagamenti al supermercato, biglietti del cinema o del teatro, acquisto e lettura del quotidiano, per citare le attività più semplici e ripetitive nelle nostre giornate. Nel passato recente tutti questi servizi corrispondevano a un numero considerevole posti di lavoro. Alcuni anche dignitosamente retribuiti. Oggi molti di questi sono scomparsi o si sono trasformati in occupazione di bassissima qualità e di ancor più infima retribuzione. E soprattutto in lavori privi di garanzie. Basti pensare alla quantità di persone che operano nell’ambito delle consegne a domicilio, che si tratti di pasti, spesa, libri.

La bussola, oggi come in tutti gli snodi fondamentali della storia, non può che essere il rapporto tra dignità e lavoro. Quello che facciamo contribuisce a definire chi siamo, arricchisce di senso le nostre vite, ci rende donne e uomini liberi. Semplicemente il lavoro è dignità e libertà. Se questa equazione salta, se viene meno la naturale, potente, spinta degli esseri umani a migliorare la propria condizione attraverso la fatica e il lavoro, torneranno a contare fattori quali la condizione alla nascita, la famiglia di provenienza, il censo, l’accesso a relazioni privilegiate. Questo condizionamento è ancora potente, troppo. Ma se si annulla la possibilità di cambiare i destini inscritti nella carta d’identità attraverso il proprio impegno e il lavoro, che senso ha la vita?

Il tema chiama in causa i valori della nostra civiltà, incide sulla dignità della persona. I cambiamenti travolgenti che stiamo vivendo hanno allora bisogno non di tamponi regolamentari o di “pannicelli caldi”. Occorre un profondo, serissimo e coraggioso, ripensamento del paradigma di sviluppo e welfare fin qui dominante, fino all’elaborazione di nuovi codici etici e valoriali. Per questo sforzo è necessario partire dai valori universali che hanno animato e poi scandito la scrittura dello Statuto dei Lavoratori, cinquant’anni fa. Un’opera straordinaria. Uno dei passaggi virtuosi che ci rendono fieri della storia repubblicana del nostro Paese.”

 

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