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“Isidoro Trovato: licenziamenti alla prova dei fatti” (il dietro le quinte)

È convinzione diffusa che il mercato del lavoro italiano sia flessibile in entrata e rigido in uscita e che, per superare tale rigidità, il Jobs Act  sia risolutivo.

A leggere, tuttavia,  i numeri ufficiali, diffusi dal Ministero del Lavoro, sulla base delle comunicazioni obbligatorie trasmesse dai datori di lavoro ai Centri per l’Impiego ed analizzati dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, si scopre che nel 2014, l’anno che precede l’entrata in vigore della riforma renziana,  sono stati “interrotti” 10.139.109 rapporti di lavoro, tra subordinati e collaborazioni coordinate e continuative, a fronte di 22.279.000 occupati (dato Istat), quasi una cessazione ogni due occupati.

Sono ugualmente interessanti le motivazioni delle cessazioni dei rapporti di lavoro, uno spaccato significativo del mercato del lavoro, sintetizzabili nella seguente tabella:

 

Scadenza termine 6.730.514 66,38 %
Dimissioni 1.345.587 13,27 %
Licenziamento 1.029.038 10,15 %
Pensionamento 71.218 0,70 %
Chiusura azienda 83.144 0,82 %
Mancato superamento prova 103.263 1,02 %
Risoluzione consensuale 108.180 1,07 %
Altro 668.165 6,59 %
Totale 10.139.109 100,00 %

 

È evidente, anche al non esperto in relazioni industriali,  l’alto numero di cessazioni per scadenza del rapporto di lavoro a  tempo determinato ed il numero delle cessazioni “imposte” come i licenziamenti, le dimissioni giusta causa (che sono comprese nelle dimissioni in genere), le risoluzioni consensuali: nello specifico, sono 89.000 i licenziamenti intimati per motivi disciplinari, per giusta causa (cause molto gravi) e per giustificato motivo soggettivo (cause meno gravi che determinano, comunque, un licenziamento), mentre sono 828.000 i licenziamenti per motivi economici, pari all’80% della totalità dei licenziamenti.

Giuridicamente il licenziamento è l’atto con il quale il datore di lavoro interrompe unilateralmente il rapporto di lavoro con il dipendente, con motivazioni che dovrà esplicitare nell’intimazione scritta e, nel caso del licenziamento economico, queste non sono  imputabili al  comportamento del lavoratore, ma a ragioni che riguardano la riorganizzazione aziendale, investendo, quindi, l’assoluta discrezionalità delle decisioni datoriali.

Semplice? Non sempre.

La ristrutturazione aziendale è un processo complesso il cui obiettivo è quello di risollevare l’impresa in difficoltà, tagliando costi, cercando di  rimediare con interventi mirati,  giungendo a  ristrutturare del tutto l’azienda, fino a privarsi di alcuni dipendenti che si ritiene di non poter utilmente reimpiegare in altri comparti dell’attività; ovvero, perché sia possibile procedere ad un licenziamento economico, non è sufficiente che il datore di lavoro decida di riorganizzare la produzione ma è necessario che la figura professionale licenziata non sia più utile all’interno dell’azienda: diversamente l’imprenditore ha l’obbligo di ricollocare il lavoratore in un’altra posizione, il c.d. obbligo di ripescaggio. Può capitare, però, che un licenziamento intimato per motivi economici sotto intenda, e qui sarà un giudice a stabilirlo, un licenziamento discriminatorio (il lavoratore è iscritto al sindacato, o donna, ecc), e che venga  “attenuato” in un licenziamento per motivi economici, come escamotage per limitare il ricorso al contenzioso.

Nell’articolo pubblicato di recente dal “Corriere della sera”, Isidoro Trovato, si sofferma sulla vicenda di due lavoratori licenziati e dichiara di essere colpito dalla somiglianza della vicenda di  Alba Solaro, caporedattrice di Marie Claire, e di Luca Fiorini, operaio e rappresentante sindacale della fabbrica chimica Basel di Ferrara. Sulla carta, siamo di fronte a due tipologie diverse di licenziamento: la seconda vicenda parla di un licenziamento per giusta causa, per gravi fatti imputati al lavoratore nel corso di una trattativa per introdurre nel contratto integrativo l’impegno aziendale alla ricollocazione dei lavoratori; il primo, invece, è considerato un licenziamento economico, con riferimento ad una qualifica cancellata che può legittimare il licenziamento della giornalista che ricopriva la mansione.

Sarà compito del magistrato stabilire se entrambi i licenziamenti siano riconducibili ad un licenziamento discriminatorio ed, in tal caso, oggetto di possibili reintegri all’interno dell’azienda; le vicende dei due lavoratori, infatti,  benché recenti, non sono del tutto soggette al Jobs Act, che produce effetti solo per i dipendenti assunti dopo marzo 2015.

Un presunto “nuovo” dinamismo del mercato del lavoro italiano non è, comunque, oggettivamente quantificabile per il 2015 e nemmeno negli anni a seguire: gli effetti combinati dell’abolizione dell’art. 18 e degli sgravi contributivi,  previsti dalle Leggi di Stabilità degli anni 2015-2016-2017, non consentiranno una valutazione puntuale ed attendibile delle  assunzioni e dei licenziamenti e, soprattutto, costituiscono l’alibi per una politica che non  predispone  attive politiche industriali.

 

Bologna, 13 gennaio 2016

 

Mirella Di Lonardoleadlabyrinth

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