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Un modello cinese per la gestione dei flussi migratori?

(a cura di Amina Crisma, in collaborazione con www.inchiestaonline.it )

 

 

Da sempre Inchiesta è impegnata a promuovere una seria riflessione e un ampio dibattito sui molteplici aspetti della realtà cinese, nella convinzione che il rapporto con la Cina rappresenti un interesse strategico di vitale importanza per il nostro Paese. La nostra rivista vi ha dedicato e vi dedica un’attenzione assidua, pubblicando contributi autorevoli di varia provenienza, segnalandone luci e ombre, successi e contraddizioni, nello sforzo costante di sottrarsi agli atteggiamenti preconcetti, evitando sia le pregiudiziali demonizzazioni sia le altrettanto acritiche apologie (fra gli esempi più cospicui di questa nostra attività, ricordiamo la ricca discussione intorno al volume Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato da noi promossa sulla versione online, e le argomentate analisi dei rapporti Cina/USA apparse sui numeri più recenti). Rientra a pieno titolo in questo nostro impegno la pubblicazione del testo che qui vi presentiamo, “Panacea cinese?” apparso su Chinoiresie.info del 4 luglio: un appello a guardare alla Cina con consapevolezza critica e con responsabilità, tenendo conto adeguato della sua complessità, senza ricorrere a scorciatoie e a ingannevoli slogan, senza strumentalità, senza mitizzazioni. L’appello è firmato da 23 sinologi attivi in 5 università italiane e 18 università straniere, tutti italiani affermati e noti nel mondo accademico internazionale per i loro studi sulla Cina contemporanea. Primo firmatario è Ivan Franceschini, Marie Curie Fellow presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e presso l’Australian National University di Canberra, dove è condirettore della rivista Chinoiresie pubblicata dall’Australian Center on China in the Word, autore di importanti ricerche sul campo su temi relativi al lavoro e alla società civile in Cina e in Cambogia, fra cui ricordiamo Cronache dalle fornaci cinesi (Cafoscarina, 2009), Germogli di società civile in Cina, con Renzo Cavalieri, (Brioschi, 2010), Cina.net (O Barra O 2012), Lavoro e diritti in Cina (Il Mulino 2016) e gli svariati contributi pubblicati sulla nostra rivista (la redazione di Inchiesta).

 

Qualche settimana fa, il nuovo Sottosegretario allo Sviluppo Economico Michele Geraci ha pubblicato sul blog di Beppe Grillo ‘La Cina e il governo del cambiamento’, un articolo in cui espone la sua visione di una ‘più attenta politica estera ed economica rivolta alla Cina’ per ‘[aumentare] le probabilità di successo del contratto di governo’. Con questa risposta, ci proponiamo di portare all’attenzione del pubblico come l’articolo contenga una serie di affermazioni azzardate, che a nostro avviso testimoniano una deriva pericolosissima che sta avendo luogo oggi in molte società occidentali, inclusa quella italiana. Due punti in particolare ci sono sembrati allarmanti.

La Cina come modello di gestione dei flussi migratori
Innanzitutto, Geraci sostiene che l’Italia dovrebbe imparare dalla Cina in materia di gestione dei flussi migratori. Negli ultimi quarant’anni, la Cina ha saputo gestire notevoli flussi migratori interni, tanto che ad oggi sono oltre 286 milioni i contadini che hanno abbandonato le campagne per trovare lavoro nelle aree urbane. Sorvolando sulle enormi tensioni sociali e i problemi morali legati allo sfruttamento del lavoro migrante nel Paese, Geraci parla di ‘accoglienza’ e ‘rispetto del patto sociale’, ‘dignità e posti di lavoro’, con la Cina che avrebbe ‘[limitato] il bighellonaggio e la delinquenza’ perchè ‘chi arrivava in città sa quali sono le regole e rispetta il patto sociale del luogo ospitante’.

Questa affermazione è problematica da almeno tre punti di vista. In primo luogo, Geraci non menziona come nel caso cinese si sia trattato di migrazione interna, quindi assolutamente non comparabile con i flussi migratori della nostra area mediterranea, e per di più pilotata sin dall’inizio dal governo centrale di Pechino.

In secondo luogo, anche ammettendo che esista un nesso tra migrazioni e criminalità (un collegamento presente anche nel discorso ufficiale in Cina), se i livelli di criminalità in Cina sono percepiti come più bassi rispetto a quelli degli Stati Uniti o di certi paesi europei, questo non è certo perché i migranti cinesi conoscono le regole e vogliono rispettare il patto sociale. Questo avviene per una serie di motivi molto più complessi. Uno di questi è il fatto che molti reati non vengono riportati e le statistiche spesso sono edulcorate da funzionari locali a cui conviene mostrare il successo della propria amministrazione in termini di mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità sociale. Un altro è la differente organizzazione spaziale delle città cinesi, dove per lungo tempo la divisione delle aree amministrative non ha rispecchiato la stratificazione sociale e la divisione in classi. Un altro ancora è il sistema brutale con cui il crimine viene represso in Cina. Accademici e attivisti hanno ampiamente documentato come la Cina utilizzi ancora la tortura nelle proprie stazioni di polizia e come dure campagne ‘anti-crimine’ abbiano ancora luogo a cadenze regolari. Durante tali campagne i testi di legge vengono spesso abbandonati, le normali procedure giudiziarie semplificate per consentire agli organi di polizia e alle corti di arrestare e condannare un ‘giusto’ numero di criminali.

Infine, non si può dimenticare come lo sviluppo cinese degli ultimi decenni si sia ampiamente basato sullo sfruttamento della forza lavoro rurale. È risaputo come i migranti cinesi siano sottoposti ad un regime di subalternità che li pone in una posizione di sudditanza, come se si trattasse di veri e propri cittadini di seconda categoria. Basta pensare alla discriminazione istituzionale insita nel sistema della ‘registrazione familiare’ (hukou), che vincola l’approvvigionamento dei servizi pubblici al luogo d’origine dei cittadini, oppure agli sfratti che i migranti subiscono ricorrentemente nelle metropoli cinesi, come i fatti di Pechino dello scorso novembre confermano. È inoltre importante notare come le stesse autorità cinesi abbiano riconosciuto l’inadeguatezza delle proprie politiche di gestione delle migrazioni e da anni siano alla ricerca di alternative. Alla luce di ciò, affermare che le politiche migratorie cinesi siano un modello basato sul rispetto della dignità e del patto sociale è una tesi difficile da sostenere.

La Cina come modello per la gestione della pubblica sicurezza
Geraci sostiene che l’Italia dovrebbe imparare dalla Cina in materia di sicurezza pubblica ‘nei limiti imposti dalla nostra cultura e costituzione’.

Dal 2015 ad oggi decine e decine di avvocati e attivisti impegnati in cause politicamente sensibili sono stati costretti al silenzio—incarcerati e spesso torturati—in un attacco che spesso non ha risparmiato neppure i loro famigliari. Nel frattempo, i media sono stati imbavagliati, nel tentativo di rafforzare l’ortodossia del Partito e la società civile è stata minata alla base attraverso l’adozione di nuove norme estremamente restrittive, come ad esempio la nuova legislazione sulle ONG straniere. Le innovazioni cinesi in materia di ‘pubblica sicurezza’ più recenti sono però due. Innanzitutto, vi è l’esperienza dello Xinjiang, dove la popolazione uigura sta venendo sottoposta a schedatura, con deportazioni di massa in campi di ‘rieducazione’. Poi vi sono vari esperimenti con sistemi di ‘credito sociale’, in cui i cittadini si vedono assegnati un ‘punteggio’ sulla base del proprio comportamento reale e virtuale, un numero che viene utilizzato per determinare agevolazioni o restrizioni nell’accesso a vari servizi. In tutto questo, riteniamo ci sia ben poco per l’Italia da imparare, non solo per chiare ragioni etiche, ma anche per il semplice motivo che la Cina stessa sta sperimentando in questi ambiti senza avere ancora una chiara idea delle possibili conseguenze.

In questo contesto, Geraci sostiene che ‘la Cina è migliorata anche per quanto riguarda la giustizia criminale e civile’. Se paragonata all’era Maoista o ai primi anni Ottanta, non possiamo certo obiettare sul fatto che in Cina l’amministrazione della giustizia penale e civile abbia subito cambiamenti significativi. Questo risulta evidente tanto dal numero delle leggi emesse, quanto dal livello di sofisticazione del sistema legislativo. Quanto avviene nella pratica, tuttavia, rimane piuttosto problematico. Una delle priorità di Xi Jinping è la promozione dello stato di diritto, ma uno stato di diritto con caratteristiche chiaramente autoritarie in cui la legge viene utilizzata in maniera strumentale, se non addirittura manipolata, per rinforzare il potere politico. Inoltre, non si può dimenticare come in Cina ad oggi non esista separazione tra i poteri del Partito e quelli dello Stato.

Simpatie autoritarie
Altri punti sollevati da Geraci appaiono altamente problematici sia da un punto di vista concettuale che etico. Ad esempio, la questione degli investimenti cinesi in Africa è presentata senza alcun accenno alle tensioni politiche e sociali emerse nel continente africano. Ugualmente, il Sottosegretario dimostra notevole fiducia negli effetti positivi che investimenti cinesi porterebbero in Italia, senza accennare alle delicate questioni politiche e geopolitiche coinvolte. Allo stesso tempo, sorvola sulle complesse tematiche relative alla privacy, che le norme cinesi sulla cyber-sicurezza sollevano.

Le posizioni del Sottosegretario destano stupore ed allarme non solo perché prendono a modello un sistema autoritario, ma soprattutto per il sistema di valori che sembrano sottendere. In quanto accademici impegnati da anni nello studio della società e politica cinese contemporanea, auspichiamo un confronto stretto e costante con la Cina, senza che però si rinunci a quello spirito critico che dovrebbe contraddistinguere ogni sforzo di comprensione reciproca. Per questa ragione, non possiamo che denunciare qualsiasi tentativo di subordinare l’esercizio della capacità critica a considerazioni di carattere politico ed economico, in particolare quelli provenienti da personalità in posizioni di responsabilità.

 

Ivan Franceschini (Università Ca’ Foscari e Australian National University)

Elisa Nesossi (Australian National University)

Giorgio Strafella (Universität St.Gallen)

Fabio Lanza (University of Arizona)

Paola Voci (University of Otago)

Andrea Enrico Pia (London School of Economics)

Luigi Tomba (University of Sydney)

Gianluigi Negro (Università della Svizzera Italiana)

Anna Lora-Wainwright (University of Oxford)

Gaia Perini (Tsinghua University e Scuola di Lingue di Forlì, Università di Bologna)

Elena Nichini (The Chinese University of Hong Kong)

Carlo Inverardi-Ferri (National University of Singapore)

Valeria Zanier (Katholieke Universiteit Leuven)

Martina Caschera (Università di Chieti-Pescara, G. d’Annunzio)

Renata Vinci (Università Roma Tre)

Laura Lettere (Università di Bologna)

Federico Brusadelli (Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg)

Lisa Indraccolo (Universität Zürich)

Francesca Congiu (Università di Cagliari)

Rossella Ferrari (SOAS University of London)

Alessandra Mezzadri (SOAS University of London)

Maurizio Marinelli (University of Sussex)

Federica Ferlanti (Cardiff University)

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