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“Al posto della morte c’era la luce”, Pier Cesare Bori interpreta Tolstoj

 

A cinque anni dalla morte di Pier Cesare Bori (4 novembre 2012) si ripubblica, a cura di Francesca Biagini, un suo saggio del 2009 che propone temi e aspetti cruciali della sua riflessione e della sua concezione della lettura come esercizio spirituale.

“Al posto della morte c’era la luce” è il titolo suggestivo del saggio breve e intenso che Pier Cesare Bori aveva dedicato nel 2009 ad alcuni finali della narrativa di Tolstoj, e che era allora apparso su Lo Straniero; molto opportunamente esso ora ci viene riproposto in volume da Castelvecchi a cura di Francesca Biagini, slavista docente all’Università di Bologna.

Queste dense pagine che riappaiono a cinque anni dalla morte dell’autore, maestro e amico della cui straordinaria figura mi risulta davvero difficile offrire un ritratto anche solo parziale (“Il silenzio e le parole: in memoria di PierCesare Bori”, Cosmopolis, VII, 2012, www.cosmopolisonline.it ), inducono a un rinnovato confronto con la sua peculiare concezione della lettura come esercizio spirituale, ossia intesa non come mera erudizione, ma come pratica sapienziale intimamente connessa a un’esperienza di vita: una concezione che trovava fra l’altro attuazione nel gruppo di lettura da lui promosso e guidato per quarant’anni “Una via”, dove testi di varie tradizioni religiose e filosofiche d’Occidente e d’Oriente erano oggetto di meditazione condivisa da parte di un composito ensemble che includeva detenuti del carcere della Dozza di Bologna (ne parla, ad esempio, la rubrica che vi è dedicata su Inchiesta www.inchiestaonline.it ).

A sottendere tale originale concezione, così distante nel suo rigore dal facile consumo pop di vaghi misticismi, così lontana nella sua apertura dalle angustie settoriali di certe consuetudini accademiche, e invece così intimamente affine alle modalità commentariali di pensiero caratteristiche di sapienze antiche, c’era un’eccezionale profondità, varietà e molteplicità di studi e ricerche, che spaziavano dalla Bibbia al Corano, da Simone Weil a Freud, da Pico della Mirandola ai classici confuciani e taoisti (ne offre un significativo specimen il volume di Bori Incipit, Cinquant’anni cinquanta libri, Marietti 2005).

Come ci ricorda Francesca Biagini nella sua bella e ampia introduzione, il rapporto con l’opera di Tolstoj ha avuto un ruolo speciale in questa multiforme e articolata costellazione. Bori, che vi si è dedicato ampiamente sin dagli anni Settanta, e che negli anni Ottanta si è fra l’altro occupato del suo carteggio con Gandhi, sentiva acutamente il bisogno di riproporne e di ripensarne alcune idee fondamentali, di “far rientrare nel circolo della riflessione comune (…) la quantità enorme di intelligenza, di generosità, di coraggio, di verità” che vi è contenuta. Ciò che soprattutto gli interessava della sua riflessione era “il richiamo ai valori universali delle antiche tradizioni etiche”, “la difesa di un cristianesimo naturale che tuttavia non smarrisce l’idea che l’anima si acquista solo perdendola”, e la serietà e sincerità del suo sforzo di praticare ciò che predicava; ma quest’orientamento si sottraeva a ogni astratto schematismo, poiché si alimentava della consapevolezza che le teorizzazioni di Tolstoj non esauriscono la profondità del suo pensiero religioso, la sua capacità di cogliere – a partire da sé e dalla propria intrinseca contraddittorietà – l’irriducibile complessità della condizione umana.

Così più che nei saggi è nei romanzi e racconti tolstojani – da Anna Karenina a Cholstomer, da La sonata a Kreutzer a Padre Sergio, da La morte di Ivan Il’ic a Resurrezione – che Bori cerca e trova gli elementi di una meditazione sulla morte e sulla vita, sulle fini e sui nuovi inizi, che si rifrange nella fisica concretezza di singoli destini, e che interroga il lettore con inesausta tensione: quella tensione che, come egli osservava in Incipit a proposito di Guerra e pace, “della realtà non dà nulla per scontato”, e che ne sa evocare gli aspetti più diversi, dalle pallottole che fischiano nel fervore della battaglia al seducente splendore di un ballo, dai lupi affamati che divorano il cavallo morto alle foglie fruscianti del bosco che si muovono sopra l’albero abbattuto. E tuttavia, forse una segreta e misteriosa unità sottende e accomuna questa dissonante molteplicità, e si fa forse percepibile nella luce abbagliante che per un istante appare nei momenti estremi agli occhi di Anna e di Ivan. Ma è questa una dimensione che può essere solo oggetto di una folgorante intuizione, e che, come si dice nel Laozi, testo particolarmente caro a Tolstoj come a Bori, di per sé eccede ogni parola, sta al di là – o al di qua – di ogni discorso.

Amina Crisma

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