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Edward Hopper: l’altra modernità

di Maria C. Fogliaro

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Abbandonare il tempo ed entrare in una dimensione alternativa, lontana dai paradigmi moderni della velocità e del progresso, nella quale si percepisce un’energia nuova, che sconcerta e inquieta, mentre si risveglia con lucidità estrema, nello strato più profondo, la memoria di «qualcosa» che sentiamo di conoscere, come se ci fosse appartenuto da sempre: questa è la duplice sensazione che sorprende chi avvicina con attenzione le opere di Edward Hopper (1882−1967), fino al 24 luglio in mostra a Palazzo Fava a Bologna.

Nato a Nyack (New York), Hopper studia alla New York School of Art, sotto la guida di Robert Henri, iniziatore dell’anticonformista Aschan School contro la soffocante tradizione classica delle accademie americane in favore di una profonda osservazione della realtà, e di William Merritt Chase, sofisticato esponente dell’Impressionismo statunitense. Fra il 1906 e il 1913 Hopper viaggia a più riprese in Europa, soggiornando soprattutto a Parigi, dove − estraneo alle Avanguardie − assimila la lezione dei grandi maestri dell’Impressionismo (Degas su tutti); trascorre molto tempo osservando le architetture e la vita nelle strade e nei bistrots; e matura gradualmente il proprio linguaggio e la propria originale visione del mondo.

Considerato la quintessenza dell’artista americano − pittore, illustratore, incisore formidabile −, Hopper ha saputo come pochi cantare la poetica delle cose ordinarie (negozi, distributori di benzina, caffè, drugstores, camere d’albergo, stanze chiuse, case, strade, fari, ponti) e rappresentare gli aspetti meno esaltanti e appariscenti, ma anche più sorprendenti, della modernità americana − come, ad esempio, la vita urbana della provincia −.

L’esposizione di Bologna − curata da Barbara Haskell, in collaborazione con Luca Beatrice −, che si apre con l’Autoritratto realizzato fra il 1903 e il 1906, contiene una vasta selezione di dipinti, acquerelli, incisioni (ad acquaforte e a puntasecca) e disegni − a cui viene data nella mostra molta rilevanza, in quanto espressione di libera creatività nonché elementi preparatori dei quadri principali − che vanno dagli inizi del Novecento fino agli anni Cinquanta e Sessanta.

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Celebrato come l’esponente più illustre del Realismo d’oltreoceano e comunemente noto come «il poeta che dipinge la solitudine» (secondo una famosa definizione di C. J. Bulliet, critico d’arte di Chicago), nelle opere dell’artista newyorkese, in realtà, si incontra qualcosa di più della semplice rappresentazione della scena americana o della solitudine esistenziale dell’uomo moderno. Attraverso un uso straordinario della luce − che appare tagliente, plastica, vivissima, e che (insieme alla composizione geometrizzante, alla purezza formale, alla profondità di visione e all’estrema riduzione dei particolari) costituisce la cifra del suo linguaggio pittorico −, Hopper dà vita a paesaggi onirici, e a figure sfuggenti colte nell’ardore dell’attimo, immerse in atmosfere misteriose e conturbanti, che evocano la suggestione del ricordo. Tale è l’impressione che si ha osservando sia le opere degli inizi − come, ad esempio, Le Bistro or The Wine Shop (La bottega del vino, 1909), dove una scena dal sapore ordinario è percorsa da un’inquietudine di fondo, o Soir Bleu (Sera blu, 1914), un quadro nel quale a distanza di tempo i ricordi del periodo parigino riemergono potenziati dall’intreccio virtuoso di realtà e immaginazione −, sia le più famose tele della maturità − come South Carolina Morning (Mattino in South Carolina, 1955) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960), nelle quali sul realismo delle scene domina la luce accecante del sole −.

Ricorrendo spesso a una prospettiva angolare − che ricorda da vicino, anche per l’uso del «campo medio», la soggettiva cinematografica −, Hopper induce lo spettatore ad assumere il punto di vista dell’artista, mentre la staticità enigmatica e senza alternative, a volte compostamente angosciante, caratteristica delle scene dipinte, lascia aperto uno spazio vuoto che libera la soggettività di chi osserva. Opere, insomma, costruite per sorprendere la vita nell’attimo, come emerge in Summer Interior (Interno d’estate, 1909) − uno dei suoi capolavori trasudante erotismo −, in New York Interior (Interno a New York, 1921), o nell’incisione Evening Wind (Vento della sera, 1921). Il ricorso allo sguardo in soggettiva e l’abile dosaggio della luce consentono a Hopper di mantenere alta la tensione e creare quella suspense che scatena l’immaginazione dello spettatore − come, ad esempio, in Stairway at 48 rue de Lille, Paris (Scale del 48 di rue de Lille, Parigi, 1906), uno dei primi lavori dal taglio cinematografico, o in Night Shadows (Ombre nella notte, 1921), la celebre incisione che testimonia, insieme ai numerosi studi presenti in mostra [come Study for Office at Night (Studio per ufficio di notte, 1940) o Study for Gas (Studio per benzina, 1940)], la fascinazione per il mondo dello spettacolo e il legame profondo di Hopper con il noir, sia nel cinema (Hitchcock su tutti) sia nella letteratura −.

Accanto alle visioni di interni e alle situazioni tipicamente metropolitane, la retrospettiva di Bologna dà conto anche di altri temi esplorati dall’artista, come le scene legate alle tipiche atmosfere del New England (fari solitari e case vittoriane), alla strada e al paesaggio americano di provincia, che Hopper ben conosceva per i lunghi viaggi dal New England verso Sud, compiuti in automobile insieme alla moglie, Josephine Verstille Nivison, che fu la sua musa per tutta la vita.

Maestro straordinario nell’uso del tono e della luce; sperimentatore di nuove soluzioni formali e inventore di un «modo filmico» di guardare alla pittura, che ebbero grande influenza sui pittori e gli scultori della generazione successiva; ispiratore di grandi maestri del cinema e della letteratura, Hopper è stato soprattutto «un modernista pur rifiutando l’astrazione» − come affermò Gail Levin, la sua principale biografa −, capace di rappresentare, attraverso un vasto repertorio di motivi e generi della pittura figurativa, gli aspetti più profondi dell’America della prima parte del XX secolo, con un realismo che, a ben vedere, accoglie − pur nella chiarezza delle forme − tutto il mistero che della realtà è parte necessaria e ineluttabile.

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