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Una nuova filosofia per una nuova economia

di Maria C. Fogliaro

Pennacchi 2

«Volevamo cambiare una nazione, e invece abbiamo finito per cambiare un mondo». Era l’11 gennaio del 1989, e Ronald Reagan, preparandosi a lasciare la presidenza degli Stati Uniti, si rivolgeva al popolo americano con queste parole, a significare il proprio successo nel contribuire a rovesciare il paradigma keynesiano – entrato in crisi all’inizio degli anni Settanta – e a imporre una nuova visione del mondo. Forte di un apparato teorico-concettuale prodotto nel corso del Novecento, che ha visto in Hayek e nei membri della Mont Pelerin Society i suoi ispiratori, il neoliberismo si è imposto – parallelamente al crollo dell’URSS – come pensiero unico e totalizzante, divenendo la dottrina e, soprattutto, la pratica che ha trovato applicazione omogenea a livello globale, e finendo per essere accolto anche in Europa nella versione ordoliberale di matrice tedesca.

Dopo un trentennio di dominio incontrastato – nel quale si è imposta a tutti i livelli la logica che governa i mercati finanziari e che ha portato a una (forse) irreversibile disarticolazione dei rapporti fra economia, società e Stato così come si erano configurati durante l’età moderna –, la crisi economica globale esplosa fra il 2007 e il 2008 ha portato il sistema vicino al collasso e ha rivelato il fallimento teorico e pratico della doxa neoliberale, mostrandone tutte le interne contraddizioni. Il meccanismo messo in piedi negli anni Ottanta da Thatcher e Reagan e poi impostosi a livello globale si è quindi inceppato, e tuttavia – contrariamente a quanto sarebbe stato logico aspettarsi – la sua crisi non ha provocato una messa in discussione dei suoi postulati, che, invece, hanno continuato a ispirare, soprattutto in Europa, le politiche economiche e la visione a lungo termine degli Stati. Se la ricetta neoliberista ha così clamorosamente fallito, perché – viene da chiedersi – i suoi paradigmi sono ancora imperanti? Da dove trae origine la sua potenza irresistibile? Perché un’alternativa teorica e pratica non riesce a emergere e a diventare egemone?

Da questi interrogativi prende le mosse la riflessione che Laura Pennacchi sviluppa nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo (Ediesse, 2015). Dopo una iniziale e approfondita analisi economica della crisi e, sicuramente, facendo tesoro del monito di Keynes per il quale quella economica «è essenzialmente una scienza morale e non una scienza naturale», Pennacchi si concentra su un problema indubbiamente nuovo per chi, come l’Autrice, è abituato a maneggiare professionalmente gli strumenti dell’economia, e non quelli del pensiero filosofico-politico: ovvero il problema del soggetto, e quindi dell’assoggettamento e della soggettivazione, col quale Pennacchi prova a confrontarsi andando a indagare i «fondamenti concettuali e perfino filosofici dell’ortodossia dominante».

Pennacchi – rifiutando la lezione sul potere, di matrice nietzschiana, che viene da Foucault e che costituisce uno degli assi fondamentali sui quali viene impostato il problema del soggetto, nel dibattito filosofico-politico contemporaneo – abbraccia l’idea, portata avanti da una parte della filosofia politica attuale, del carattere storicamente determinato della dottrina e delle politiche neoliberiste, e della loro discontinuità rispetto al razionalismo moderno.

Il neoliberismo si afferma non soltanto come un insieme di ricette di politica economica – i cui pilastri, ricorda Pennacchi, sono la finanziarizzazione, la deregulation e la commodification (la mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza) – ma si configura come la più grande riorganizzazione dell’economia, della società e della politica, fondata su assunti filosofici specifici intorno all’uomo, inteso soltanto come agente razionale, una macchina calcolante che associa l’utile individuale all’agire strategico. Per Pennacchi, invece, il mondo non è abitato soltanto dall’homo œconomicus, dal soggetto autointeressato, ma c’è un individualismo basato sulla socialità, sull’interdipendenza, sull’ammissione della vulnerabilità e della fragilità umana, che contrasta con il delirio di onnipotenza del soggetto prometeico (dominatore in realtà dominato) e che deve entrare nel pensiero economico, inducendolo a una svolta. Esiste per l’Autrice una «fondamentale forma di riflessività» da intendersi come la ricerca costante da parte dei soggetti di «un equilibrio tra bisogni individuali e collettività, motivazioni autointeressate e motivazioni sociali, autoconsiderazione e cura degli altri, sfera privata e sfera pubblica». «In questo ambito – afferma Pennacchi – la stessa distinzione tra morale e politica è da respingere». La sfida odierna, per l’Autrice, sta nel rovesciamento del paradigma neoliberale – e anche del razionalismo individualistico moderno, a favore di altri filoni intellettuali della modernità come il romanticismo –, in vista di un «nuovo modello di sviluppo» che tragga ispirazione dalla «creatività istituzionale» e dalla radicalità «di progettazione teorica e di critica ideologica» del New Deal di Roosevelt.

È merito di Laura Pennacchi aver intercettato, in questo suo ultimo libro, un problema filosofico di primissima importanza – cioè che il mainstream economico implica un’antropologia e una filosofia, che cela al mondo e che forse ignora – e che la critica del neoliberismo non può esimersi da una riflessione di largo respiro, che potrà essere perfezionata e ampliata con il contributo di filosofi di professione.

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