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Escher: l’inganno della ragione

di Maria C. Fogliaro

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Scenari immaginari, realtà libere dal vincolo gravitazionale, tassellature del piano che non lasciano spazi vuoti, ardite costruzioni geometriche, transiti da una forma all’altra, architetture dell’assurdo, oggetti impossibili: decifrare l’universo creativo di Escher − da molti definito «l’enigmatico» − significa addentrarsi in un territorio liminale, nel quale possibile e impossibile sono realtà indistinguibili, e tutto può trasformarsi in qualsiasi cosa.

Intorno al percorso artistico di questo influente maestro e alla sua capacità di fondere − attingendo liberamente a linguaggi, stili e mondi culturali assai diversi − i principi della scienza e dell’arte con uno slancio creativo fra i più originali del XX secolo, ruota l’esposizione ospitata a Palazzo Reale a Milano fino al 22 gennaio 2017. Una retrospettiva che i curatori − Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea (prestatore della maggior parte delle oltre duecento opere in mostra, tra xilografie, litografie e disegni) − hanno ordinato con l’idea di evidenziare la continuità della sua produzione dagli anni della formazione fino alla maturità, e il rapporto strettissimo della sua vicenda personale e professionale con il patrimonio artistico e paesaggistico italiano, ma, soprattutto, con l’obiettivo di riaffermare − contro un’interpretazione assai diffusa − il legame profondo dell’incisore olandese con la tradizione pittorica e architettonica (occidentale e orientale), e con l’humus culturale e artistico del suo tempo. La sezione finale della mostra (ricca anche di giochi ottici e di percezione) è, invece, interamente dedicata alle incisioni minori − come i biglietti di auguri o gli Ex libris, che in realtà mostrano la stessa qualità e intelligenza delle opere più grandi −, e soprattutto alle influenze dell’opera dell’artista sulla cultura hippy, sulla musica rock, sul cinema, la pubblicità e la cultura pop in generale.

Dopo la formazione alla Scuola di Arti grafiche di Haarlem sotto la guida di Samuel Jessurum de Mesquita, esponente dell’Art Noveau, dagli anni Venti Maurits Cornelis Escher (1898−1972), anche per curare una latente depressione, inizia a viaggiare in Italia, maturando un profondo amore per il Sud della penisola, i cui paesaggi − insieme alle visite al complesso palaziale dell’Alhambra a Granada e alla moschea di Córdoba − si rivelano determinanti per la sua originale concezione dello spazio e delle architetture. Si pensi a opere come Castrovalva (Abruzzi, febbraio 1930), Pentedattilo, Calabria (ottobre 1930), o Tropea, Calabria (gennaio 1931): tutte testimonianze del fascino esercitato su Escher dalla conformazione, per lui insolita e meravigliosa, dell’orografia del nostro Paese, le cui influenze riaffiorano nei capolavori della maturità, come ad esempio Relatività (luglio 1953), dove lo sforzo perfettamente riuscito di liberarsi dalla tirannia della gravità è certamente figlio − oltre che dell’impatto suscitato sul grande incisore dalla visione nel 1936 della selva di colonne della moschea di Córdoba − della «singolare spazialità dell’urbanistica dei piccoli paesi frequentati dall’artista nei suoi anni italiani».

La stagione dell’Art Noveau, il simbolismo, il divisionismo, il futurismo, il cubismo, il surrealismo, lasciano in lui un’impronta decisiva; mentre la scelta di stabilirsi a Roma (dal 1927 al 1935, quando per ragioni politiche si trasferisce in Svizzera) gli consente di entrare in contatto con i capolavori dei grandi maestri del passato − primo fra tutti Borromini −, e con i circoli culturali e le tendenze artistiche contemporanee. Esperienze, queste, che si palesano in opere come, ad esempio, Rossano, Calabria (febbraio 1931), dove si scorge la vicinanza alle scelte, fra simbolismo e divisionismo, operate da artisti come Pellizza da Volpedo o Segantini; oppure in Notturno romano: colonnato di San Pietro (1934), in cui l’artista riproduce una Roma notturna illuminata dalla luce artificiale, del tutto inedita e pienamente moderna, secondo i dettami del futurismo allora imperante.

320 part of Metamorfose

A partire dall’Autoritratto del 1929, cui segue l’intera raccolta dei XXIV Emblemata (1932) − sentenze a sfondo morale per le quali Escher realizzò le incisioni «xilografiche» −, l’esposizione ripercorre l’opera dell’artista olandese, proponendo una vasta selezione dei capolavori più noti, come Mano con sfera riflettente (1935), Specchio magico (1946), Altro mondo II (gennaio 1947), Mani che disegnano (gennaio 1948), Tre mondi (dicembre 1955), Vincolo d’unione (aprile 1956), fino a Serpenti (1969), l’ultima enigmatica litografia.

Ben visibili in tutto il percorso espositivo sono l’incontro − fondamentale per la costruzione dei suoi patterns − con le forme astratte e simmetriche, teoricamente replicabili senza limite, dell’arte nazarí, conosciuta in Spagna; l’attenzione alle conquiste della scienza, e il confronto continuo con l’universo geometrico e matematico, e con i concetti di spazio e di tempo − tutti aspetti che hanno ispirato Douglas R. Hofstadter in Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante (Adelphi 1984) −; il rapporto speciale con la cristallografia, testimoniato da opere come Cristallo (1947), o Drago (1952), dove l’animale mitologico − che rimanda (anche se l’artista non lo ha mai dichiarato) all’Uroboros, il Serpente antico avvolto su se stesso e immortalato nell’atto di divorare la propria coda, simbolo alchemico dell’eterno ritorno − è collocato su una formazione di «cristalli di quarzo» che sembra infondergli vita vera; i legami profondi fra il mondo creativo di Escher e le correnti culturali del suo tempo, come la Gestalttheorie, sulle cui leggi della percezione visiva egli ha costruito, ad esempio, la celebre litografia Convesso e concavo (marzo 1955) − opera alla quale potrebbe non essere estraneo il ricordo dell’affresco di Andrea Pozzo nel soffitto della chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Roma −.

Con un uso della ragione portato ai limiti dell’assurdo con coerenza estrema, Escher di fatto scuote dalle fondamenta l’orgogliosa affermazione della supremazia della ragione umana e della sua capacità di plasmare il mondo a propria misura. Le scene di prospettive e di «scale impossibili», che, attraverso un percorso circolare, portano al nulla − come si può scorgere in Su e giù (luglio 1947), Belvedere (maggio 1958), Ascendente e discendente (marzo 1960), e Cascata (ottobre 1961) − descrivono un mondo in cui la ragione svela l’evidenza inquietante che l’impossibile è contenuto in realtà dentro la ragione stessa, e che quindi razionale e irrazionale hanno la stessa origine e non sono separabili. Che insomma la ragione è anche illusione e insidioso inganno.

Non è tuttavia un messaggio disperato quello che Escher ci consegna, se vogliamo prendere sul serio le suggestioni magistralmente espresse in Metamorfosi II (novembre 1939/marzo 1940) − la sua stampa più nota e importante, costruita sul concetto di kringloop (ossia di «ciclo») −, e udire in esse un’eco che arriva dalle epoche lontane che avevano piena coscienza di quanto labili, e in fondo illusori, sono i confini fra i mondi: l’eco di una consapevolezza priva di paura.

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