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La Germania: il problema d’Europa?

di Maria C. Fogliaro

Germania-bandiera

«In realtà, le teorie economiche sono sempre e profondamente un prodotto dei tempi e dei luoghi; e non si può analizzarle prescindendo dal mondo che interpretano». Si dovrebbe tenere presente questo monito di John Kenneth Galbraith nell’esaminare la reazione dell’Europa alla crisi economica mondiale esplosa fra il 2007 e il 2008. Questo è quanto Gabriele Pastrello fa nel suo La Germania: il problema d’Europa? (Asterios 2015, pp. 74, euro 7), che l’Autore ha presentato a Bologna il 2 novembre, alla libreria Zanichelli, insieme a Francesco Garibaldo (direttore della Fondazione «Claudio Sabattini»). Pastrello, in questo lavoro, parte dalla constatazione che alla complessa crisi economica del capitalismo le élites europee hanno risposto con la «scommessa politica dell’austerità», pubblicamente sostenuta da una retorica di crescita («l’austerità espansiva»). Le contraddizioni di questa posizione hanno iniziato − soprattutto col montare della crisi greca − ad essere oggetto di attenzione e di critica nel mondo anglosassone, dove studiosi di fama hanno messo in luce l’irrazionalità sia di politiche deflattive in tempo di recessione sia «la quasi suicida perseveranza nel richiedere l’austerità fiscale come rimedio agli attacchi ai debiti sovrani quando era proprio il rimedio a causare l’attacco».

Per tentare, quindi, di dare una spiegazione dell’ossessione, tutta tedesca, per l’austerità, Pastrello torna alle origini del pensiero alla base delle politiche economiche europee. Attraverso un’analisi a ritroso che parte da teorie formulate alla fine dell’Ottocento, l’Autore mostra come un’ideologia economica nata in seno ai gruppi dominanti tedeschi come risposta conservatrice al nazismo − e nota a livello teorico con il nome di ordoliberalismo, e a livello accademico come Scuola di Friburgo − sia diventata religione di massa in Germania. Fondato sulla «fiducia dogmatica che la libertà della concorrenza producesse spontaneamente libertà politica, crescita economica e progresso sociale», l’ordoliberalismo − attraverso i trattati istitutivi dell’Unione − si è imposto in Europa, dove è entrato con il nome di «Economia Sociale di Mercato».

La tesi di fondo dalla quale Pastrello parte, per spiegare la forza ideologica dell’austerity, è l’esistenza di un dogma stabilito alla fine degli anni Settanta, in reazione alla crisi del modello socialdemocratico: «mai più Keynes». Ovvero meno spesa pubblica, riduzione dei poteri contrattuali dei lavoratori, e priorità al mercato e agli interessi del capitale a danno del lavoro (e quindi dei corpi intermedi, come i sindacati) e dell’occupazione, che va stimolata aumentando la flessibilità. Un orientamento, quindi, radicalmente opposto a quello “di sinistra” − incentrato cioè sulla spesa pubblica, sulla contrattazione con i sindacati e sull’obiettivo della giustizia sociale − che aveva consentito a Roosevelt di risollevare gli Stati Uniti dopo la crisi del 1929. Oggi, invece, le élites europee hanno ritardato gli interventi che sarebbero stati necessari per affrontare adeguatamente la crisi al suo esplodere e, di fatto, hanno condotto politiche sbagliate che, invece di produrre crescita, sono andate ad aumentare le difficoltà dei Paesi più deboli.

La Germania, Paese leader in Europa, − che «è stato in tutto il dopoguerra il parassita delle politiche keynesiane mondiali» (la cui spinta è all’origine del primato del cosiddetto «modello tedesco, del quale Pastrello fornisce una dettagliata ricostruzione) − di fronte alla crisi ha posto un ultimatum, pretendendo il raggiungimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio e imponendo ai Paesi economicamente più in difficoltà aggiustamenti − il Fiscal Compact, il Two Pack e il Six Pack − che hanno drasticamente cambiato gli equilibri economici e politici europei. Il risultato più grave è stato, secondo Pastrello, la frantumazione del sogno federalista, che si è prodotto parallelamente alla riduzione degli spazi di autonomia degli Stati nazionali insieme all’imporsi di una visione gerarchizzata − anche in senso geografico − dell’Europa: in pratica, uno dei peggiori scenari possibili. A queste considerazioni l’Autore aggiunge le preoccupazioni sulle trattative − riservatissime − per la firma del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP, Trattato transatlantico di cooperazione per il commercio e gli investimenti), che minaccia di travolgere il sistema sociale e i fondamenti alla base della civiltà giuridica europea, fornendo alle grandi multinazionali «un quadro istituzionale … per permettere loro di potere galoppare in uno spazio europeo reso libero dalla moltitudine di vincoli», garantendo loro la possibilità di scavalcare la giustizia ordinaria (attraverso arbitrati indipendenti) «in questioni in cui gli investimenti statunitensi si ritengano trattati in modo non equo». In un simile scenario, che potrebbe terminare «in una ‘liberalizzazione’ sfrenata della società europea», la ragione storica dell’esistenza stessa della Socialdemocrazia europea verrebbe seriamente messa in discussione, in un momento in cui tutte le forze della sinistra storica − delle quali la Socialdemocrazia tedesca (SPD) ha costituito la punta di diamante − vivono una crisi profonda.

Tutti i problemi nodali attualmente in campo, per Pastrello, non sono affrontabili senza un cambiamento di direzione da parte delle élites politico-economiche europee, di quella tedesca in primis − che deve capire che assumersi la responsabilità vera di gestire l’Unione è nel suo stesso interesse −. Ma, per poter proseguire nella costruzione europea seguendo l’ispirazione originaria di Spinelli e degli altri fondatori, è essenziale che le forze di sinistra tornino ad essere egemoni − proponendosi come alternativa vera e concreta allo stato di cose esistenti −, e che la SPD si faccia carico di guidare questo percorso, «per assumere il ruolo storico, che solo lei potrebbe esercitare per la storia e per il ruolo stesso della Germania: traghettare la democrazia sociale europea nel nuovo mondo del secolo appena iniziato».

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