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Il crollo della borsa in Cina: quali segnali dalla seconda economia mondiale?

di Amina Crisma

crack borsa cinese

Dopo tre settimane consecutive di crollo dei mercati azionari cinesi, l’allarme è ieri rientrato, con segni positivi di forte ripresa alla borsa di Shanghai (+5,7%), che si è immediatamente ripercossa sulle altre borse asiatiche (Tokyo ha chiuso con un +0,6%). E tuttavia, non è certo il caso di sottovalutare quello che nei giorni precedenti è accaduto nella seconda economia mondiale, in uno scenario globale già così agitato.

In un quadro segnato dall’estenuante prolungarsi della crisi del debito greco, che ha fra l’altro rivelato impietosamente tutta la fragilità di una costruzione europea la cui attuale leadership sembra mostrare in certi suoi atteggiamenti delle inquietanti affinità con i comportamenti di Hal, il computer impazzito del film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio, il sensazionale crollo della borsa cinese nei giorni scorsi è venuto ad aggiungere ulteriori elementi di incertezza e di ansietà

Ricordiamone i dati salienti. In tre settimane, si sono verificate perdite pari all’incirca al 30% : si calcola che sia andato in fumo un valore di circa 3200 miliardi di dollari. Il crollo ha preso avvio alla Borsa di Hong Kong, poi si è propagato a quella di Shanghai (con punte fino a -7), e l’effetto si è propagato nell’Asia, raggiungendo la borsa di Tokyo e generando un’ondata di preoccupazione a livello planetario.

Solo per dare qualche esempio: il 7 luglio, Shenzhen ha chiuso a -6,75, Hong Kong a -5,84, Shanghai a – 5,91, e l’onda ha raggiunto il Giappone, con Tokyo che ha chiuso a – 3.

Tutto questo è successo dopo una fase euforica di crescita spettacolare, in cui i cinesi erano stati fortemente incentivati a investire. A questo sviluppo senza precedenti ha concorso, fra l’altro, la crisi del settore immobiliare, che dal 2009 aveva registrato un eccesso di investimenti speculativi, mentre dal 2010 sono milioni i metri cubi che non trovano acquirenti: immani flussi di investimenti si sono così trasferiti alle borse, e si sono in tal senso incoraggiati i piccoli investitori, che vi hanno profuso i loro risparmi. Solo per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, la borsa di Shanghai aveva registrato una crescita del suo valore del 150% in un solo anno; nel solo mese di maggio, ogni settimana si aprivano in Cina 4 milioni di nuovi conti dedicati agli investimenti in borsa.

La frana dei giorni scorsi è stata dunque una doccia fredda, un colossale shock, che ha incrinato la fiducia nell’illimitata espansione di un modello di sviluppo evidentemente non esente da debolezze.

Il governo cinese è corso ai ripari, con tutta una serie di interventi di emergenza mirati, dal divieto di sei mesi agli investitori di vendere azioni in società quotate di cui possiedono oltre il 5% alla sospensione di nuove quotazioni, e dopo giorni di difficoltà sembra infine essere riuscito infine ad arginarla, come mostrano i dati odierni.

Rimane comunque sotto i nostri occhi l’evidenza di un fenomeno preoccupante, sulle cui motivazioni è il caso di interrogarsi.

E’ verosimile che sia scattata la paura di qualcosa di ignoto, che ha dato luogo a manovre speculative sulle quali le autorità dichiarano di voler fare piena luce; ma si può ipotizzare che una parte non irrilevante sia stata giocata anche da un elemento di ordine squisitamente psicologico e culturale, che ha verosimilmente concorso a determinare, a cascata, tutta una serie di comportamenti collettivi. E’ un fatto che molti investitori cinesi non sono degli esperti giocatori di borsa professionali, ma dei neofiti e dei dilettanti (su 90 milioni di investitori in borsa in Cina, si calcola che oltre il 90% siano privati), sicché, se vedono che si vende, comprensibilmente si precipitano a vendere anche loro, seguendo la corrente che così diventa una piena disastrosa.

Manca in Cina un solido gruppo di investitori istituzionali che siano in grado di fare ragionamenti di lungo termine, a che siano in grado di controbilanciare le fluttuazioni dei piccoli azionisti totalmente esposti alle turbolenze del mercato, che possono facilmente andare nel panico, come ovunque succede. Ma forse manca anche quel certo tipo di propensione al rischio che non sembra propriamente caratteristico del cosiddetto “capitalismo confuciano”, così proteso a sottolineare il valore della disciplina; mi guardo dal farne una considerazione deterministica, ma non mi sembra un caso il fatto che i migliori giocatori di borsa che mi sia dato conoscere siano non di rado figli di minoranze storicamente perseguitate, e non di disciplinate maggioranze la cui esperienza storica consolidata è un’educazione conformistica.

Come che sia, questa vicenda evidenzia degli aspetti di fragilità del modello di sviluppo cinese, che continua sostanzialmente a fondarsi su bassi salari ed esportazione, e in cui il consumo delle famiglie rimane a livelli troppo bassi: soltanto il 30% del PIL, contro il 60% di Europa e Stati Uniti.

Si tratta di un problema strutturale che, non sono in pochi a pensarlo, andrà prima o poi affrontato. In ogni caso, benché l’allarme sia rientrato, quanto è avvenuto in queste ultime tre settimane offre argomenti per rivisitare problematicamente una visuale che si era largamente diffusa, e che era diventata per molti una specie di indiscutibile articolo di fede, a partire dalla crisi del 2008: quella di una Cina che avrebbe invariabilmente il ruolo di stabilizzatrice dell’economia globale.

 

Amina Crisma  

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